Chi può giudicare Vincenzo De Luca? Nessuno, risponde il ministro dell’Interno. Grazie a quel suo linguaggio – da caverna o da taverna fate voi – ha vinto le elezioni. E chi può giudicare la mamma che rifiuta di vaccinare suo figlio, convinta di fargli bene? Nessuno. E possiamo permetterci di sanzionare il twittatore ossessivo? Scrive ciò che gli pare, quando e come gli pare. Abolita l’etica, confusa dall’asineria generale con il moralismo, abbiamo abolito il giudizio. E infatti resta in piedi solo il pregiudizio. Anzi: viviamo sistematicamente di pregiudizi. È la nostra lama da taglio, il coltello da cucina con il quale affettiamo i nemici, apparenti o reali che siano. Vivendo una doppia vita, quella materiale e l’altra virtuale che scorre parallela sui social, spesso iniziamo a confondere i target e puntiamo il coltello dove non dovremmo.
COL PREGIUDIZIO in genere ci perdono i più deboli, che sono anche i più poveri. E ci guadagnano i forti, casualmente coincidenti con i ricchi. Ma come abbiamo visto nelle elezioni americane il pregiudizio, figlio della rabbia, produce il paradosso di vedere frotte di affamati che in fila votano per il loro affamatore. Il pregiudizio ci porta infatti nel luogo opposto a quello che ci siamo prefissi ma tacendocelo ci fa apparire quel che non è. I romani per esempio, che non amano essere giudicati, si accompagnano al pregiudizio come scelta di vita. Se le strade sono sporche, le buche sono in terra, le auto in doppia fila la colpa in genere è di uno solo: chi li governa. È questo un pregiudizio terapeutico perché li conduce dritti all’assoluzione: non c’è colpa né responsabilità. La questione riguarda gli altri. Quel che ne consegue è ai limiti della comicità: vorremmo le strade pulite anche se ci capita di imbrattarle, e i cassonetti a posto anche se a volte, per parcheggiare, siamo costretti a sospingerli oltre, e la fine della sosta selvaggia quando purtroppo ci capita di parcheggiare male.
NON DOVENDO essere giudicati da nessuno, proseguiamo liberi sulla strada dell’invettiva o, per i più pacati, su quella del solido e storico pregiudizio. È una scelta liberatoria che infatti ci ritorna utile al lavoro, quando infliggiamo ai nostri amici di facebook decine di post nell’orario di punta convinti – a ragione – che il computer si accende quando si è in ufficio, meglio tra le 11 e le 15, cioè nel cuore della nostra fatica quotidiana.
A QUELL’ORA in tanti lo leggeranno perché in tanti saranno al posto giusto nel tempo sbagliato. E in tantissimo giudicheranno o avranno già giudicato, forti del pregiudizio, quel che noi – simmetricamente – avremo fatto a fette con il nostro coltello affilato. Il giudizio è figlio della responsabilità, il pregiudizio invece un effetto collaterale del fanatismo, dell’ossessione o, nelle forme meno cruente, della faziosità. Giudicare costa, pregiudicare invece no.
Da: Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2016