Perché l’Italia più ricca è anche la meno generosa con i migranti, umanità perduta e derelitta per definizione? I fatti di Goro, nel Polesine, dove gli abitanti hanno costruito barricate per respingere, riuscendovi, delle donne africane (dodici) con otto bambini al seguito, indicano il punto della crisi della solidarietà tra simili. Dà conto del senso affievolito di una civiltà, la nostra appunto, che ci pareva non potesse offrire il segno ostile del respingimento. Marino Niola, da saggio antropologo, ci fa incamminare verso la strada giusta per comprendere o almeno tentare. “Il povero più facilmente divide quello che ha perché sa che la sua vita si regge sulla solidarietà e sullo scambio. Il tuo simile è quello che ti fa sopravvivere. Il ricco invece sviluppa un senso di autosufficienza, modula sulla propria fatica e sul proprio talento la percezione totalitaria della sua esistenza”.
Il povero è aperto al mondo e il ricco no?
Il povero conosce la necessità della connessione, il ricco conosce la responsabilità delle proprie azioni. Il povero per definizione vive una vita più comunitaria. Chi sta meglio invece è più solo. Non a caso lo spirito capitalista si innesta fortemente nell’etica protestante. Il principio della responsabilità del singolo dà implicitamente il senso della solitudine di ciascuno: solo con la propria vita, i propri guai, il proprio benessere.
Invece la cultura della compassione è mediterranea.
Esatto. Trova radici più salde andando verso Sud. E qual è la lezione principale che impartisce? Nessuno è mai solo.
Non basta questa spiegazione di ordine etologico a convincerci dell’ineluttabile rovescio della nostra esistenza: più ricchi ma più egoisti.
Infatti aggiungo considerazioni di ordine sociale ed economico. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno vissuto il miracolo economico, la certezza che si potesse vivere solo meglio del tempo in cui si era nati. Oggi la consapevolezza del peggio è comune e profonda. Un mondo così precario, un’economia così traballante, un futuro mai tanto incerto. Allora ci diciamo: potremo stare solo peggio. La paura ci conduce all’egoismo: ritrarsi in casa, sbarrare la porta. Esattamente com’è successo a Goro.
E succederà ancora?
Certo che sì. Mi sarei aspettato un avamposto varesotto protoleghista come punta di diamante di questo respingimento di piazza. Pensavo che il Polesine, così dentro alla tradizione cooperativa emiliana, facesse più resistenza a questa paura. Ci troveremo comunque di nuovo e ancora momenti simili.
Lo straniero alle porte.
Partiamo dalla parola. In greco è xenos : straniero ospite per antonomasia. Infatti per i greci lo straniero è il Dio nascosto. Il latino hospes significa sia ospite che straniero e anche nemico. È dentro l’etimo l’angoscia, l’insicurezza. Se non è ospite, sarà nemico. E dunque?
Dunque, come diceva Sofocle…
Ah, Sofocle, esatto: ogni fruscio è un pericolo.
È questa l’età della paura.
È il tempo della globalizzazione che reca in sé il paradosso dei due opposti: contatto e contagio. Il mondo globalizzato produce un contatto accelerato, interconnessioni telematiche e fisiche, conoscenze, scoperte, incontri. Allo stesso tempo questo nuovo mondo che entra in casa ci conduce nella paura del contagio.
La paura ci fa correre a immunizzarci.
Sì, la voglia di immunizzarci dalla febbre come dallo straniero. Chiudere le porte, chiavistelli dappertutto.
L’ondata migratoria è un magma che induce a immaginare l’apocalisse. Le sue dimensioni sono così enormi e così rilevanti rispetto alle nostre forze…
La paura è generata da quel che ci appare un fiume vorticoso che sommerge loro e alla fine noi. Se i governi ci dicessero la verità, cioè che esiste nel mondo occidentale ancora tanta domanda di quelle braccia. Domanda taciuta o negata, ma reale, vivremmo in modo più ordinato quella che chiamiamo emergenza e che forse non è.
Da: Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2016