C’è il terremoto. Abbiamo paura. Ci sono i migranti. Abbiamo paura. C’è la crisi economica. Abbiamo paura. L’età della paura è la nostra, ci accompagna ogni giorno, e ogni giorno trova nuova linfa, nuove occasioni di sviluppo. Una paura si somma all’altra e all’altra ancora e insieme queste nostre fobie edificano le pareti di una società infragilita che pulsa a volte rabbia e rancore, altre volte appare invece muta e sorda. Luigi Zoja ha indagato a lungo le sorgenti della nostra paranoia con un fortunato saggio edito da Bollati Boringhieri (Paranoia. La follia che fa la storia).
Professore, bisogna provare paura per poter vivere?
Assolutamente sì. È un istinto di repulsione che si oppone, essendo il suo contrario, a quello di attrazione. Eros e Fobos. Se i nostri antenati non si fossero amati noi non ci saremmo mai stati. Ma senza l’istinto di difesa, dettato dalla paura di essere attaccati da altri simili o da animali o soltanto dalla necessità di schivare un pericolo che avrebbe potuto manifestarsi come mortale, neanche saremmo venuti al mondo.
È questa dose eccessiva di terrore che complica notevolmente la nostra esistenza. Sembra che la paura sia stabilmente la nostra compagna di vita.
Qui è lo scarto tra l’istinto naturale e la costruzione di scenari che alimentano questo sentimento.
Come l’ossicitina che si somministra alla partoriente in travaglio, così la paura è indotta, alimentata, sostenuta?
La politica è attivamente alla ricerca di un consenso che molte volte trae origini dalla paura. La paura dell’altro, del migrante, del diverso, del nero, per fare l’esempio più banale e corrente. La paura alimenta emozioni, produce ansie e fa registrare consensi altrimenti rifiutati dalla logica.
L’età della paura si fonda su percezioni alterate.
Ricorda il tempo in cui eravamo circondati da ladri? Furti ovunque, televisioni scatenate, giornalisti a caccia di umani barricati in casa?
Ho l’impressione che questo nostro tempo abbia sempre bisogno di eccessi per sentirsi vitale. E vive sempre sull’orlo dell’abisso, attendendo che l’estremo segno del dolore gli faccia visita.
Le guerre alle porte, la grande tragedia climatica con le ondate migratorie, il terrorismo fanatico, la religione come lama per uccidere. Abbiamo una rassegna di eventi che, sommati, provocano quel tipo di mercato di cui discorrevamo.
E poi le terre tremule come la nostra carne. È una società agitata, allarmata, repressa nell’ansia.
Pensi che a ogni notiziario televisivo in Italia, anche nelle giornate più fiacche, compaiono almeno due notizie di crimini. Grandi o piccoli fatti di cronaca nera al giorno. In Germania due a settimana. Eppure il numero dei reati comuni che si commettono da noi e da loro si equivalgono. Questo piccolo dettaglio dà il senso della speciale acuta agitazione, questa bolla dentro cui viviamo.
Ma che vita sta divenendo la nostra?
Non riusciamo a vivere la vita interiore, ad avere tempo e voglia di guardare dentro noi stessi. E non riusciamo a esprimere compiutamente l’eros, il sentimento dell’attrazione. Se la paura –fobos– sopravanza, eros perde peso e speranza, misura e qualità.
Niente sesso né amore, solo angoscia.
Si chiama sindrome da ritiro. È la paura del mondo. I giovani vivono ancor più decisamente questo trauma che sviluppa esteriormente una assenza di passione.
Assenza di passioni private e passioni pubbliche?
Sì, l’interesse a partecipare, interagire, concorrere a una idea si affievolisce.
Tutti chiusi in casa, tutti silenti. Oppure a bruciarsi le dita sul computer.
Beh, sappiamo anche però che i più introversi, i silenziosi, sono, alla prova dei fatti, i più coraggiosi a opporsi al sistema.
Resta una società di silenti.
In qualche modo sì.
Non ci sono good news?
La prognosi è abbastanza infausta.
Da: Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2016