Dei 14 milioni di italiani che vivono sui versanti della dorsale appenninica, lungo il cordolo alpino o nelle aree interne delle isole, i più fortunati – fino a ieri – si consideravano i residenti tra le colline umbre e marchigiane. Sicuramente i più ricchi, meno oppressi di certo dall’erosione demografica, dal depauperamento urbanistico, dalla progressiva riduzione dei servizi pubblici essenziali.
IL COLPO più duro che questo terremoto infligge all’Italia è che ora schianta e crepa il nucleo duro della campagna felice, il tessuto dei borghi antichi, fragili ma riveriti. Umbri e marchigiani patiscono per la sesta volta in meno di quarant’anni il botto maligno e quel che fino a ieri non era accaduto oggi si nota a occhio nudo. “Non ce la faccio a tenerli qui, dobbiamo trovargli un posto negli alberghi sulla costa”, ha detto disperato e deluso dalla resa, il sindaco di Ussita. E una signora col giubbotto di lana sulla vestaglia da notte: “Io non ce la faccio più, non resisto qui”. Si è messa in moto la mesta colonna dei soccorsi, allineati i pullman della Protezione civile, caricati i tremila sfollati che andranno a svernare lungo la costa adriatica. Tremila è il numero provvisorio. Quanti di loro a primavera faranno ritorno? Ad Amatrice, per tentare di fermare l’esodo, la Regione Lazio ha messo sul tavolo una fiche in danaro, un super bonus, detto Super Cas, per coloro che avessero deciso di abitare nelle case ancora integre. Oltre i seicento euro dell’indennità per l’autonoma sistemazione qualche altro centinaio come premio alla resistenza. Molto meno di mille persone hanno scelto Amatrice invece che Rieti o il mare o Roma. Naturalmente gli allevatori che altrove non potrebbero andare, coppie di anziani in buona salute, giovani ardimentosi e orgogliosi della propria radice. Tutto qua il magro bottino. “Il mio problema e il mio incubo è che tutto ciò che faremo non riesca a fermare lo spopolamento. L’unico vero obiettivo del mio impegno invece è di far sì che le case che ricostruiremo non siano consegnate al milite ignoto”, diceva qualche sera fa dietro il tendone da cucina della Caritas Vasco Errani, il commissario di governo per la ricostruzione di Amatrice e dintorni che già oggi si trova ad affrontare una nuova emergenza e altri territori.
SEI SONO STATI i terremoti che in meno di quarant’anni si sono abbattuti al centro del centro dell’Italia, per contare soltanto i più distruttivi e i più recenti. Le scosse con magnitudo superiore a cinque gradi Richter. Nel 1979 ebbe la peggio Norcia e la scossa sfiorò i sei gradi. Nell’84 le case tremarono a Gubbio (5,4 di magnitudo), nel 97 l’epicentro fu a Colfiorito. Poi i morti de L’Aquila, la paura e i danni che sconfinarono dall’Abruzzo per venire su verso le colline marchigiane e a ovest lungo l’appennino reatino. Ad agosto la botta che sappiamo e il cimitero che abbiamo visto. Nemmeno due mesi e di nuovo un colpo, una faglia, una coppietta sismica, come gli esperti dicono, che ha fatto inclinare le mura che avevano resistito, cedere i tetti che avevano finora sopportato altre botte, fatto fuggire le persone che invece avevano obbedito alla loro terra.
L’ITALIA DI MEZZO, intesa come l’osso montuoso che divide il Tirreno dall’Adriatico, ogni anno certifica l’abbandono montante. Legambiente in uno studio accurato ha contato che i “paesi del disagio”, centri dove l’occupazione è sempre più sporadica, la natalità inesistente, la fiducia compromessa, nel 1996 erano 2830. Nel 2001 sono divenuti 3.292, nel 2006 3.556, nel 2011 3.959. Quest’anno i comuni a rischio, disagiati o compromessi, ammontano a 4.395. Si stima che da qui a 15 anni più di 1300 comuni saranno praticamente dei cimiteri.
Sono cifre pazzesche che l’Istat, in una recente e approfondita analisi territoriale, riunisce in gruppi omogenei e illustra anche possibili azioni di rinascita. Per dare occupazione ci vuole una rete di infrastrutture viarie, a iniziare dal treno, che sono state lasciate marcire con la teoria dei rami secchi. Sono ottomila i chilometri di binari morti, ruggine oramai lasciata alle foglie d’autunno. Costava troppo tenere in vita collegamenti quotidiani. Non si era calcolato il costo civile della sepoltura di intere comunità, di paesi divenuti oramai irragiungibili e sui quali il terremoto sta infliggendo l’ultima condanna.
Da: Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2016