Succede a tanti ed è successo anche a lui alcune settimane fa. Postava su Facebook le ragioni che lo avevano spinto a trattare i fatti del G8 di Genova nel modo in cui poi al cinema abbiamo visto. E certo Diaz è stato il film più popolare e apprezzato di Daniele Vicari. Il post improvvisamente scompare, sottoposto a censura. Lui dapprima non sa che fare, poi sceglie di protestare.
Contro chi ha protestato?
Contro un’entità immateriale: lo staff del social network . Staff immagino stia per direzione, governo, gestione dei problemi.
Staff, non un nome e un cognome.
Tutto assolutamente avvolto nell’anonimato, tutto imperscrutabile. L’angoscia di vedere diritti elementari, conquiste oramai consolidate, quali la libertà di espressione, venute meno perché gruppi organizzati, nemmeno un gran numero, segnalavano come “indesiderato” il tuo pensiero, la tua opinione. E un luogo indefinito che giudicava e decideva.
Ai tempi della conoscenza orizzontale, istantanea, popolare che dovrebbe far immaginare una democrazia più forte, condivisa, allargata a chiunque, una regressione dei diritti così plateale, evidente, esagerata.
I social hanno apparentemente dato la voce a chiunque volesse o voglia averla. E il potere della parola, prima appannaggio dell’élite, è divenuto patrimonio di ogni ceto, di ogni classe. L’irruzione sulla scena pubblica di miliardi di persone.
Facebook è il più grande continente al mondo: più di un miliardo e seicento milioni di persone lo abitano.
È una cosa così grande da divenire anche, come il mio piccolo caso, pericolosa assai. Consegniamo la nostra vita, i nostri affetti, i nostri segreti e la nostra parola, la nostra libertà a un’azienda privata che gestisce nel modo che crede quei dati e la nostra libertà e poi ci vende alla pubblicità.
Come può essere che non badiamo al rischio enorme di una esposizione così svincolata da ogni limite, vincolo, dovere?Continue reading