Un numero, il 13, racconta la partita doppia con il potere, la sua doppia vita di banchiere e di politico. Tredici anni a Via Nazionale e altrettanti tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Non è precisamente un uomo del popolo, non ama la piazza, anzi ne ha paura (“soffro di agorafobia”), eppure se ne serve. Si dichiara servitore dello Stato, eppure – per obbligo di ufficio – si fa mediatore con chi dello Stato ha una concezione proprietaria. Carlo Azeglio Ciampi ha il merito di aver sopportato due crisi epiche della Repubblica: la prima monetaria e l’altra morale. Ha affrontato con buoni risultati la prima e gestito la seconda con la tecnica della riduzione del danno.
Gli è toccato, da presidente del Consiglio, di prendere in mano un’Italia quasi fallita. Ce l’ha fatta a riportarla in una condizione accettabile. È stato chiamato, da presidente della Repubblica, a sorvegliare il tratto più facinoroso del ventennio berlusconiano, la gragnuola di leggi ad personam, lo sbrego quasi quotidiano alla Costituzione. Ce l’ha fatta a resistere, a non darla sempre vinta a Berlusconi.
L’ITALIA di Ciampi per lungo tempo non si è innamorata, e infatti non c’è ragione alcuna perché lo fosse. Agli italiani poteva mai piacere un laureato alla Normale, di matrice azionista, parte di una élite repubblicana antica e sconosciuta? Di un credente dai tratti fermamente laici? Uno che rifiutava, per senso dello Stato, di prendere la comunione in chiesa. Un giorno era nella cattedrale di Loreto e si negò, con un cenno del capo, all’ostia che il vescovo stava per offrirgli. “Come presidente della Repubblica rappresento tutti gli italiani”, avrebbe poi spiegato. Infatti, è poi diventato il presidente più amato, forse secondo solo a Pertini. S’è detto e s’è scritto che fosse anche massone. È però un fatto la confidenza così intima con Wojtyla da incontrarlo ogni settimana in Vaticano e fare colazione con lui, insieme alla moglie Franca e a don Stanislao, il segretario del papa.
Ciampi non ha goduto dell’eloquio fluente dell’uomo pubblico, anzi spesso incespicava e le finali rotolavano fuori dai periodi, si perdevano nelle lunghe subordinate che il Nostro (in gioventù insegnante di latino e greco) si concedeva. Mostrava del suo ruolo un rispetto così alto da tenerlo fuori dalla partecipazione popolare. Non chiedeva entusiasmo e nemmeno ne riceveva. Se nel ’93 raggiunse Palazzo Chigi chiamato dal presidente Oscar Luigi Scalfaro, fu perché rappresentava l’ultima spiaggia di una Repubblica indebitata che si affidava al governatore della Banca d’Italia per mettere ordine nei suoi conti e dare quel che gli restava in termini di credibilità per ottenere un po’ di fiducia dai creditori. Scelta felice grazie alla quale Ciampi, sei anni dopo, siamo nel 1999, avrebbe conquistato il Quirinale al primo colpo, con una maggioranza schiacciante. Lo chiamano dopo che lui ha sperato e atteso invano di essere invece il successore di Romano Prodi, l’inventore dell’Ulivo, esperienza morta per mano di Fausto Bertinotti. Per Ciampi premier, il Ciampi ministro del Tesoro di Prodi, si dichiarò prima Walter Veltroni, che lo raggiunse nella sua casa marina di Santa Severa e poi D’Alema. Sembrò fatta, al punto che in attesa dell’incarico definì la squadra di governo. “Io resto vice”, gli disse Veltroni. Ma non arrivò mai la telefonata dal Quirinale dove invece venne ricevuto Massimo D’Alema…
SAREBBE TRASCORSO poco tempo prima della rivincita. Quando si dovette scegliere il successore di Scalfaro, Berlusconi candidò Giuliano Amato ed Emma Bonino. Il centrosinistra Rosa Russo Iervolino e Franco Marini. L’oggettiva terzietà del suo nome, l’autorevolezza, la forza delle sue relazioni lo spinsero al Colle con più del 70 per cento dei voti. Furono 707 i deputati, i senatori e i delegati delle Regioni che scrissero il suo nome sulla scheda al primo spoglio. Riverito, rispettato e anche temuto. Eppure dovette far fronte all’onda impetuosa del berlusconismo nella sua fase più cruenta. Identità divisiva, acclamata nelle piazze e sempre nelle piazze processata. Il governo berlusconiano, eletto dagli italiani entusiasti nel 2001, si distinse per alcune norme, le cosiddette leggi- vergogna, che avrebbero spinto il Paese in una acuta crisi civile e politica e obbligato il presidente della Repubblica a un impegno quotidiano di contenimento del danno. Ciampi disse sì alla legge che annacquava il falso in bilancio, abbozzò quando il Cavaliere mosse guerra all’Europa rifiutando la ratifica del mandato di cattura europeo, però resistette alle norme più platealmente incostituzionali. Rispedì al mittente la prima legge Gasparri sulla tv, quella di Castelli contro i giudici, e la terza di Pecorella che aboliva l’appello contro le assoluzioni (ma dovette firmare la Bossi-Fini, il lodo Schifani e altre memorabili norme di contrasto). Il centrodestra lo trasformerà d’incanto in “ribaltonista”, “comunista mascherato”, fino a giudicarlo, con Berlusconi, “una persona amorale”, quando da senatore a vita votò la fiducia al governo Prodi II.
CON IL CAVALIERE sfiorò la crisi più di una volta. Pubblica e profonda la divergenza che nel 2001 lo lasciò esterrefatto: Berlusconi accordò a Bush ogni appoggio militare dell’Italia nella guerra in Iraq proprio mentre il Consiglio supremo di Difesa, per volere di Ciampi, deliberava che l’Italia dovesse essere “Paese non belligerante”. Il premier si fece beffe del capo dello Stato e lui, nel suo diario, annoterà: “Vengo estromesso da tutto, non ho neanche le informazioni basilari, resto ai margini di una trasformazione che diverrà importante, forse decisiva per la nostra comunità nazionale”. Eppure, quando il suo mandato terminò, giunsero in fila indiana a chiedergli di ricandidarsi. E per gli ultimi sei mesi di presidenza Ciampi spiegò che non era possibile, che l’età avanzata e la storia repubblicana negavano la rielezione. “Non si confà allo spirito della nostra Costituzione”. Lo scrisse e mantenne la parola.
Da: Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2016