di Bianca Terracciano
Tre anni di peregrinazioni, appuntati su un taccuino, si sono trasformati in un libro. Un “bottino” di storie sussurrate, evanescenti, non abbastanza accattivanti per comparire sulla pagina di un giornale, Il fatto quotidiano, di cui Antonello Caporale, l’autore di Acqua da tutte le parti (Ponte alle grazie 2016), è caporedattore.
Come un Ulisse contemporaneo e motorizzato Caporale ha compiuto “il periplo dell’Italia avendo cura di dare le spalle al mare”, un movimento circolare di scoperta, mosso dal desiderio di ricercare un rimedio ai mali del Bel paese, rintracciandone le origini. Percorrendo le tracce delle buone e cattive pratiche che caratterizzano l’italianità, Caporale cerca di trovare anche una cura per la nostalgia di un’età dell’oro non troppo lontana, termine che condivide la sua etimologia con nostos, viaggio in greco, proprio come insegna l’Odissea. Certo, al ritorno, a casa nulla è cambiato, ma la consapevolezza del passato e del presente potrebbe valere come competenza atta a ristabilire il compimento del destino nel suo farsi, con lo scopo di sensibilizzare una schiera di lettori su ciò che l’agenda mediatica ha espunto per insufficiente clamore.
Allacciate le cinture, percorriamo 14.440 chilometri di strade carrabili, seduti di fianco a Caporale, al posto del passeggero, guardando scorrere dal finestrino paesaggi montani e marini, albe e tramonti la cui luce illumina anfratti meravigliosi sebbene sconosciuti alla massa. Sembra di vederlo girare nella rotatorie che inframezzano il triangolo degli outlet di Mestre-Marghera-Villorba, mentre per empatia diventiamo madidi di sudore al pensiero della torrida giornata di luglio, percorsi da un brivido dietro la schiena pensando alla desolazione di una distesa di centri commerciali semi-deserti, frequentati da chi vuole ristorarsi con l’aria condizionata gratis.
Julia Kristeva ha parlato di un “passato che non passa e di cose sepolte vive”, proprio come i binari morti italiani, uno dei leitmotiv del volume, lunghi 2000 chilometri, che potrebbero ancora salvare tanti piccoli paesi dallo spopolamento e dall’estinzione locale.
La prima fermata è Sant’Eufemia, Calabria, un tempo servita da una linea ferroviaria diretta a Reggio Calabria, il cui percorso si stagliava a mezz’aria grazie a un’opera all’avanguardia e maestosa come il ponte di ferro, ancora esistente, costruito per unire due montagne. Oggi a Reggio Calabria si va in altro modo, anche se da Sant’Eufemia si parte principalmente per non ritornare, tanto che gli unici a essere in attivo sono i proprietari delle pompe funebri, grazie alla continua espansione del cimitero. L’allarme città fantasma in Italia è preoccupante: 1650 paesi rischiano di scomparire, frantumando legami troppo costosi per uno Stato dimentico delle anime che lo popolano. Tra questi paesi c’è Maierato, noto per una frana da un milione di visualizzazioni su YouTube, dal commento video simile a quelli di una partita di calcio delle serie minori. Ed è proprio un abitante di Maierato, Vittorio, 85 anni, a confermare la metafora calcistica, confidando a Caporale di essersi goduto lo «spettacolo come se fosse una partita di pallone». Nei paesi moribondi la noia sembra aver annullato addirittura la paura: meglio gustarsi una tragedia che l’ennesima giornata sempre uguale.
Spostandoci in una cittadina, Gioia Tauro, in cui fervono svariati tipi di attività, portuali e illegali, incontriamo, insieme a Caporale, Carmen, giovane capostazione costretta a vendere biglietti dell’autobus perché si preferiscono le esalazioni dello smog all’attivazione di una tratta di soli 10 km. La trafila delle rotaie in stallo continua a Rogliano, dove è sempre una frana a decidere il destino del luogo, attestandosi come pretesto per le FS a operare una “forma incessante di razzismo” subita dalla Calabria in quanto supposto nucleo delle “porzioni meno pregiate dell’Italia”. I soldi non devono essere spesi per rendere la vita più facile ai cittadini, bensì per rimpinguare le tasche di sedicenti paperoni come il signor Paparoni, svanito nel nulla con 120 milioni di euro dello Stato e 350 posti di lavoro e relativi sogni dei giovani autoctoni a cui dovevano essere assegnati. Tante, troppe le storie del genere e Caporale, visibilmente scorato e irritato, interpreta magistralmente il pensiero di noi lettori: “tenere aperta una ferrovia significa tenere aperta una strada, una vita, una possibilità di sviluppo, un regolatore demografico. Tenere vivo il binario è questione di civiltà”. Il binario morto in questione vuol dire quattro ore di viaggio da Catanzaro a Cosenza, ravvivate da trasbordi da treno ad autobus e poi di nuovo treno, un’infinità di tempo rispetto alla ora e mezza di vent’anni fa. Cinquant’anni fa avevamo ben 6000 chilometri di binari in più, mentre nel 2016 possediamo cellulari con visori per la realtà virtuale, ma abbiamo perso il diritto alla mobilità. Vogliono farci spostare con il solo pensiero?
Anche a Crotone la ferrovia è in rovina, così come le fabbriche e gli umani, devastati dalle scorie industriali e dall’aumento dei tumori. Sono lontani i tempi della Magna Grecia, rimane solo il mare, sperando non sia a sua volta stato intaccato dall’inquinamento, e l’azienda orafa di Viviana Sacco e della sua famiglia. Viviana, invece di emigrare come ogni laureato Luiss che si rispetti, ha deciso di ritornare a casa per rimettere in sesto i bilanci e continuare a dare una speranza alla sua terra.
A Crotone, come a Leicester, i miracoli possono ancora avvenire: la squadra di calcio locale quest’anno è stata promossa in serie A. Come arriveranno in città i tifosi ospiti o quelli dai paesi vicini? Si prevedono 8-9 mila persone ogni 15 giorni e di conseguenza grossi ingorghi sulle strade… non sarebbe ora di riattivare i treni?
Percorrendo la tratta immaginaria delle rotaie defunte Caporale ci porta ad Avellino, dove la stazione funziona a singhiozzo, anche se prima ospitava “il treno dei sogni, delle speranze, del lavoro”, che congiungeva il capoluogo irpino a Rocchetta, da cui una volta si potevano raggiungere le metropoli del lavoro. Caporale, a tale proposito, osserva che “il treno è bruco valoroso e inestimabile: non trasporta solo persone, ma connette comunità, unisce luoghi distanti e li fa sentire vicini”. I binari morti di Rocchetta sono un monumento–logo, per mutuare un concetto di Isabella Pezzini, allo spreco misconosciuto ai turisti, andrebbero quasi istituite visite guidate per educare i giovani elettori a essere critici rispetto a “una classe di governo che sta facendo affogare l’Italia”.
A Rocchetta ha origine il disequilibrio della Campania, fatto di sovraffollamento sulla costa e spopolamento sui monti, governato dal ponte Principe, un’altra enorme e desolata opera inutile, che condurrebbe a San Mango sul Calore, un’area industriale mai realizzata. I paperoni del mondo reale continuano a colpire, purtroppo nemesi del loro epigono disneyano, ricco di buoni sentimenti, ma avaro. Questo territorio avrebbe potuto avere una chance se al posto degli stabilimenti non avessero costruito un parco divertimenti, ovviamente in stato di abbandono. L’unico impianto in attività è della trentina Zuegg, industria confetturiera che non usa i prodotti DOP del luogo come le nocciole e le castagne di Montella e Lioni, altra fermata fantasma, vicina a Conza della Campania, paese ricostruito dopo il terremoto e abitato da stranieri richiedenti asilo, confinati nell’unico edificio scampato alle scosse. I rifugiati irpini hanno la pelle prevalentemente nera come gli africani a cui Caporale fa visita a Castel Volturno, provincia di Napoli, noto al grande pubblico per due motivi mediatici, ovvero come sede degli allenamenti della SSC Napoli che quale set di Gomorra, “in senso proprio e figurato”.
Una volta Castel Volturno, precisamente la sua frazione Villaggio Coppola, era meta di vacanze estive, lo ricorda anche Caporale, anche se, a una rapida consultazione di Google Maps, pare mantenere ancora tale velleità, con resort turistici di lusso e golf club, ovviamente localizzati di fianco al centro sportivo del Napoli, attrattore di benessere e denaro. Caporale ci descrive la realtà romanzata dall’episodio “Sangue Africano” della prima stagione di Gomorra, dove appunto si tratteggia a grandi linee la convivenza non pacifica delle due etnie, nigeriana e autoctona. Gli africani residenti a Castel Volturno sono 15000, non censiti, giunti nel comune come operai nei campi di pomodori o peggio, come purtroppo accade alle donne, per prostituirsi. Caporale incontra Rosemary, ghanese, che gestisce un luogo di ritrovo per gli immigrati del luogo, madre di Alassan, Saiddu e Otubumi, una ragazzina che gli confida un suo punto di vista di cui ognuno di noi dovrebbe fare tesoro. Otobumi, nonostante le difficoltà, ama il suo paese natio e di residenza, e spinta dal giornalista formula uno slogan per convincere le persone a visitarlo: «dovete venire a CV perché molto bella, io ci vivo e quindi è un posto magnifico». A questo punto Caporale la spinge a definire la bellezza, che per lei vuol dire trasmettere emozioni e sentimenti mai provati per altre cose. Renzi dovrebbe leggere queste righe, prima di sproloquiare nelle Leopolde e sul suo blog sulla bellezza populista vista da un elicottero o dalle finestre dei palazzi blasonati. Nonostante “la morte della vita” a cui assiste quotidianamente, Otobumi ha ancora entusiasmo e speranza, e sa vedere la bellezza anche attraverso le macerie.
Dalla terra dei fuochi, passiamo alla riviera dei fuochi, dove troviamo un’altra stazione e un altro treno della speranza. A Ventimiglia tre siriani di buona famiglia con l’immancabile smartphone al seguito tentano di fuggire via dall’Italia – dopo aver letto queste cose come dar loro torto? – tentando di non farsi beccare dalla polizia di frontiera. Se la loro fuga andrà male, useranno la stessa mulattiera dei nostri partigiani, a piedi. A Ventimiglia la ‘ndrangheta ha esteso i suoi tentacoli sull’amministrazione, sciolta nel 2012 per mafia, dopo anni di roghi degli stabilimenti balneari che non volevano pagare il pizzo. Dopo quattro anni le ‘ndrine governano ancora, ma Ventimiglia è troppo pigra e ricca per ribellarsi, eccetto uno sparuto gruppo, Alternativa Intemelia, che cerca di far valere le proprie ragioni inscenando flash mob in coppola per le strade della città.
Da una frontiera all’altra dell’Italia, dove il Bel Paese inizia e finisce, al confine con la Slovenia c’è Topolò, ventidue abitanti, la cui stazione questa volta è foriera di buone pratiche, “la fermata spirituale e letteraria, il luogo dove narratori, poeti e viandanti si ritrovano per far vivere con la cultura queste case vuote”. Un percorso intellettuale che dura da 22 anni, per celebrare gli effetti di senso del processo di abbandono e ritorno nelle terre natali, da cui ci si allontana alla ricerca di lavoro. La stazione di Topolò è un progetto sperimentale a cui può partecipare chiunque, antesignana dell’altra più celebre ex-ferrovia già citata in precedenza, la Leopolda, dove si accatastano luoghi comuni e inutili autocelebrazioni. La chiave di volta di Topolò è proprio l’essere al confine, che, seguendo Lotman, è un limite poroso e permeabile, dove l’esterno diventa interno e viceversa. Inoltre, l’impronta creativa alla commistione di culture, linguaggi e punti di vista, viene data dal fatto di essere alla periferia d’Italia, grazie all’apertura mentale che solo la gente di frontiera sa avere, abituata a quella curiosità di voler conoscere l’altro, da cui è divisa da una linea tanto tangibile quanto immaginaria.
Rimaniamo al Nord, ma nelle Langhe, terra di barolo e di binari morti, risalenti all’alluvione del 1994 che seppellì sotto il fango il tratto della linea Torino-Savona tra Bra e Mondovì, così come le connessioni della comunità locale. La storia si ripete nonostante la variazione di coordinate geografiche e, allo stesso modo dei casi precedenti, i fondi stanziati per il risanamento sono stati investiti altrimenti, principalmente nell’asfalto, su cui trottano i più economici autobus che offrono lo stesso servizio dei treni, ma ovviamente per meno persone e con maggiori tempi di percorrenza, mentre le stazioni, confida laconico a Caporale il professor Piero Canobbio, avvizziscono «come foglie morte, abbandonate al proprio destino».
Il destino non è stato clemente neanche con Bruno, che incontriamo con Caporale a Fossombrone, migrato nelle Marche da Eboli, per costruirsi una nuova vita come proprietario del bar della stazione, chiusa proprio il giorno in cui incomincia la sua attività commerciale. Bruno è sepolto a Fossombrone seguendo la stessa sorte delle rotaie che Michele e il suo fanclub di Fano stanno lottando per riattivare, ripristinando così, forse, un giorno, il collegamento con Urbino, oggi raggiungibile solo via autobus e automobile.
Dagli aficionados dei binari a quelli che li rigettano. Nella ridotta del Polcevera Caporale ci fa sentire le ragioni del comitato no Tav, capitanato da Davide Ghiglione, preoccupato come i suoi compagni delle sorti delle valli e delle montagne, fatte a pezzi dai cantieri. Un ingegnere del gruppo, Mauro Solari, paventa le ripercussioni che l’alta velocità potre avere sul territorio, tra cui smottamenti e dissesti, mettendo in dubbio l’effettiva utilità della nuova tratta, dato che le linee esistenti soddisfano già la mobilità di merci e umani. La domanda che ossessiona questo “gruppo fragile come la terra che vuole salvare” è «perché non fare delle opere che servano?». Ce lo chiediamo tutti, a maggior ragione dopo che Caporale ci ha aperto gli occhi sui silenziosi tormenti dei paesi che ha visitato. L’opera in questione – come dice Lorenzo – «per ben tre volte non ha superato l’esame dell’impatto ambientale». Insomma, ci sarà un motivo se queste persone si sono prese la briga di essere messe alla stregua di terroristi pur di difendere la terra che abitano. Caporale fa visita anche ai No Tav di Fraconalto, il loro “ultimo avamposto”, dove nell’agriturismo “La Sereta” si svolgono «incontri per educare gli ignoranti», come afferma l’oste Roberto, in modo da motivare una protesta ritenuta solo fine a se stessa con rudimenti di trasportistica ed economia. Un popolo informato può fare la differenza.
Il volume si conclude con il capitolo 56, “Binario morto”, attraverso cui visitiamo gli ultimi due paesi delle 102 tappe: Segesta e Gibellina. “La Sicilia è un interminabile binario morto” e a Segesta, nonostante il nastro registrato resista imperterrito, il treno ha calcato le rotaie per l’ultima volta il 25 febbraio 2013.
Anche a Sciacca la stazione è chiusa. Strano, negli anni Settanta avrebbe dovuto essere la crasi tra una stazione sciistica e una meta tropicale, da cui fare su e giù con una funivia. Nessuna traccia dei settemila posti letto e dei miliardi di lire investite, solo buche sull’asfalto e “ruggine come segno distintivo del tricolore”. La rinascita è evaporata nel secolo scorso.
Alda Merini ha scritto nella prefazione di Inverno Segreto, raccolta di poesie della siciliana Alessandra Distefano, una frase che potrebbe chiosare alla perfezione il viaggio di Caporale, concluso proprio in Trinacria, dedicata a un meridione “che canta la bellezza e la prosperità degli aranci, sa che la vita è polposa come la carne ma non lo dice, attende la maturazione della morte per dichiararla appieno”.