Binario unico e, sempre più spesso, binario morto. Sono più di cinquemila i chilometri, ma il conto è decisamente sottostimato, di strade ferrate che vengono lasciate arrugginire, e ogni anno si allunga la lista delle stazioni chiuse, abbandonate, donate ai rovi. Tutti gli incidenti dell’ultimo quarto di secolo sono accaduti su tratte secondarie, e tutti i convogli squarciati sono classificati regionali. Non un euro di manutenzione, non un minuto di attenzione, non un alito di riflessione di quanto sarebbe potuto servire all’Italia avere collegamenti decenti, regolari, sicuri, di come le città avrebbero potuto vivere senza la pressione demografica di chi non ha altra scelta che popolare le periferie perché raggiungere casa è impossibile.
Ogni soldo solo sulle linee più remunerative
Volterra, da quando ha perso il treno, ha subìto il dimezzamento dei residenti: erano ventimila alcuni anni fa, oggi sono la metà. Ferrovie dello Stato, dove non può tagliare, rallenta le opere di manutenzione straordinaria. C’è una frana tra Rogliano e Soveria Mannelli, in Calabria. Sono anni che c’è e anni che nessuno se ne prende cura. È l’omicidio perfetto: la frana non viene riparata, il treno non passa, la linea invecchia, il bus sostitutivo si fa regola. La scelta è stata cieca: infilare ogni soldo solo sulle tratte più remunerative e più ad alto costo. Collegamenti tra le principali città, e basta così. Sono 15 anni che l’Italia è infiammata dalle polemiche sulla congruità del Tav Torino-Lione. Dieci giorni fa, il ministro Delrio ha spiegato, con una certa naturalezza, che s’era trovato il modo per risparmiare circa 3 miliardi di euro senza nuocere al progetto di trasporto veloce. Così, all’improvviso! E come mai solo adesso?
Terzo valico, tunnel e miliardi alla cieca
E che dire dei costi del terzo valico: miliardi (cinque? sei? sette?) per perforare una galleria alle spalle di Genova. Un tunnel lungo più di 30 chilometri che sbuca nella piana di Alessandria per il trasporto merci. Un’opera faraonica e dichiaratamente esagerata. Non un pensiero, un convegno, una riflessione per rispondere all’obiezione di chi giustamente fa notare che sono già attive tre distinte linee ferroviarie su quella tratta e forse ammodernarle sarebbe costato assai di meno. Un’Italia in carrozza e una a piedi. Una con l’aria condizionata e superveloce e una intruppata dentro vagoni del secondo dopoguerra. Ma ovunque, all’orizzonte, la linea dello spreco. Dal Tirreno all’Adriatico non si passa, bisogna fare il giro lungo. In autostrada logicamente. Da Orte al porto di Civitavecchia, i l flusso si blocca, quel che ci sta in mezzo, e siamo nella Tuscia viterbese, è mangiato dal tempo, sepolto dalla polvere. Una gran massa di quattrini è stata distrutta in una serie incredibile di malversazioni proprio per restituire ciò che oggi non c’è. L’incolpevole Sardegna è stata teatro della più possente devastazione ferroviaria. Siamo alla fine degli anni Settanta quando le Ferrovie dello Stato, le cui linee sono alimentate con energia a 3 kilowatt, decidono di sperimentare l’alimentazione a 25 kilowatt, molto diffusa nel resto dell’Europa. Scelgono la Sardegna come terra di conquista di questo vettore moderno e una tratta lunga 350 chilometri come teatro delle operazioni. Dopo qualche mese le locomotive, belle e nuove, vengono riportate in continente e trasferite in catene, come boss della mala, tra Foligno e Rimini.
L’odissea delle locomotive
Sono rimaste le 25 locomotive, pegno alla memoria, a dare fastidio. A chi smistarle? Tre macchine, sempre in ceppi, sono trasportate in Ungheria per invitare i magiari a verificarne la qualità. Tecnici italiani vanno in missione, e sembra un film di Totò e Peppino, un classico della commedia napoletana, per tradurre nella lingua locale le indicazioni tecniche stampate in italiano. Niente ancora, neanche i magiari ci stanno: quel presepe non piace a nessuno. Le macchine nuove di zecca (costate circa 5 miliardi l’una con 20 chilometri all’attivo) vengono abbandonate. Tre anni fa le poverette sono state decapitate a Bari, a qualche chilometro dagli ulivi di Corato, vendute a prezzo di rottame.
Da: Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2016