Il calcio è un miracolo perché si gioca con i piedi, nel modo più innaturale possibile. La palla scivola, s’intorcina, impone di non rotolare su di lei. Perciò gli americani preferiscono gli sport che hanno nelle mani il centro di tutto: le mani sono i nostri migliori arti, precise, affidabili, sicure.
Col piede devi mostrare un talento superiore.
Restare dritto carezzando con la caviglia la palla, tenendola verso di te col tallone. Il calcio è gloria per i derelitti.
Garrincha, Maradona, Cassano, Messi sarebbero stati uomini diminuiti, ai margini.
Il loro riscatto passa attraverso uno stratagemma della fisica, è una qualità superiore del loro corpo. Infatti i migliori hanno spesso radici sociali modeste, hanno avuto infanzie difficili, percorsi di studi insufficienti, famiglie spesso inabili alla cura.
Bruno Barba, che lavora all’università di Genova, facoltà di Scienze politiche, è professore di calciologia.
Il campo riproduce l’identità nazionale, lo stile di vita, la filosofia con la quale ci esprimiamo. Giochiamo come campiamo.
L’Italia di Machiavelli.
Guarda come è stata con la Svezia. Bruttina, utilitaristica, negli ultimi minuti perfino moralmente riprovevole con quei passaggetti, quelle ostruzioni, quei bacini che si incurvavano. E felicemente furba. Cos’è il contropiede se non un fendente a viso coperto, una freccia che ti entra in corpo quando meno te l’aspetti? E quello è stato il tocco di Eder: una freccia nel cuore all’improvviso.
E la difesa, il catenaccio?
Il campo ci dice come siamo fatti noi, i nostri valori, e i nostri disvalori. Tentiamo di spendere poche energie, reagire ma non attaccare. Infatti Arrigo Sacchi, l’allenatore teorico del calcio d’attacco, del pressing incessante, a cui piace il confronto a viso aperto, è definito eretico. È fuori dai nostri canoni, e sarà sempre così.
Il colonialismo inglese.
Perfettamente riprodotto: calcio espansivo, aggressivo, che impone il ritmo. Calcio spavaldo, fisico. Attaccano da destra, da sinistra. Il gioco si espande. Sono colonialisti nell’anima.
Magari non sempre vincenti.
Magari no, ma si muovono sul rettangolo esattamente come la storia ce li rammenta. Partono dal primo minuto e corrono fino alla fine. Attaccano anche se vincono, corrono anche se hanno le gambe molli.
Per voltare pagina e andare all’arte bisogna raggiungere il Sudamerica.
I brasiliani hanno nell’Africa il loro progenitore. E col calcio ballano, danzano, fanno teatro. Futbol arte o futbol bailado. Conta esprimersi esteticamente, riuscire a stupire, carezzare la pelota, che è femmina, e condurla con i piedi lì dove nessuno mai potrebbe immaginare.
Il Brasile però vince di più quando è concreto.
Ma i loro tifosi soffrono molto di più se li vedono giocare male. La vittoria è importante, ma decisivo è dare una lezione di calcio. Non a caso la squadra che perse con noi ai mondiali dell’82 ha fatto sognare, piangere e amare molto di più dei compagni di squadra che poi avrebbero vinto. Cerezo, Zico, Falcao hanno pochi trofei in casa ma una popolarità sconfinata.
E poi c’è il melange.
L’ibrido argentino. Classe e fisico, arte e praticità, espedienti tattici fantastici e forme di gregarismo italiano. Il mix che li conduce in vetta. Un calciatore argentino, di regola, non è mai un cattivo acquisto.
Il calcio dunque è l’esatto specchio sociale, il nostro doppio che si riproduce in campo.
Non c’è altro sport che perfettamente illustri lo spirito nazionale quanto il calcio. Quando si dice: quel giocatore si è trasformato in campo, si dice una grande fesseria. Il campo è disvelatore, è il luogo in cui tu esprimi quello che sei. Non puoi essere una persona perbene se poi sugli spalti gridi sporco negro.
L’hooligan che è in noi.
È più in loro. E c’è un perché.
Inglesi e maledettamente colonialisti.
Guerrieri dallo spirito animalesco. Avanzano, debordano, conquistano, feriscono.
Calciologia.
Dimmi come giochi e ti dirò chi sei.
Da: Il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2016