ALFABETO – VINCENZO VISCO “I giovani politici, le foglie morte del pensiero breve”

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Tra lui e la simpatia c’è la stessa distanza che separa Bolzano da Sciacca. Rideva poco quando faceva il ministro, ride poco adesso che è osservatore esterno. Non parla, mugugna. Non dichiara, sentenzia. Non spiega, garantisce. Ci sono alcune cose che non quadrano: per esempio fa pilates. Altre che invece quadrano abbastanza: “Se Renzi avesse ascoltato i miei consigli, avrebbe trovato il modo di far pagare le tasse e i soldi necessari per far respirare l’Italia e spingerla un poco più su. Ma a lui non frega niente di stanare chi evade. Non gli interessa, semplicemente e chiaramente”. Vincenzo Visco fu ministro delle Finanze di Prodi e fu Dracula per Berlusconi. Un mastino che riuscì a spillare 37 miliardi agli italiani furbetti. Il gettito aumentò del 10,3 per cento e lui: “Adesso sarebbe però pericoloso che ci mettessimo a dare i soldi in giro”.

Secondo lei questi governanti sanno di cosa parlano?

Macché, hanno la virtù del nullismo. Se sapessero cosa fare avremmo forse meno guai.

Vi hanno rottamati promettendo mare e monti.

La qualità, il talento di Renzi è la capacità affabulatoria, la micidiale scelta dei tempi con i quali si è avventato su un Pd in realtà parecchio inconsistente scaraventandogli addosso tutte le colpe, comprese quelle imputabili a Berlusconi. Si è fermato lì.

Perché si è fermato lì?

Due i motivi. Una scelta politica di conservare anziché innovare e non mettere in tensione rapporti con ceti sociali evidentemente interessanti da un punto di vista elettorale (solo così mi spiego la rinuncia a una vera lotta all’evasione), e poi la penuria di intelligenze e di competenze.

Oggi però sembra si studi più di ieri, ai nostri figli chiediamo impegno, proponiamo master, consigliamo giri del mondo.

Si studia, si studia ma poi? Non vedo profitto.

Gli economisti di Palazzo Chigi sono scarsetti?

Direi proprio di no. Ma hanno il problema dell’esperienza. Gli manca.

È come l’autista che impara a guidare mettendosi al volante senza patente. Poco alla volta, struscia di qua e struscia di là…

Diciamola tutta: la gente vede nella politica una classe inferiore.Continue reading

Piero Fassino: “Se perdo le elezioni non chiederò premi di consolazione”

fassino_piero“Piero mangia”, gli dissero con uno striscione le compagne cuoche emiliane al tempo in cui era segretario dei Ds. Sono passati gli anni, lui oggi ne ha 67, ma si ciba di parole. Alle quattro del pomeriggio ha bevuto due aperitivi, obblighi di incontri elettorali. I suoi collaboratori sono esausti, a una ragazza bollono i piedi, l’autista ha bisogno di zuccheri. Piero Fassino invece cingola nella ludoteca di periferia, alla barriera di Milano, tra le mamme del Maghreb.

Aveva giurato di fare un solo mandato da sindaco.

Questo non l’ho mai detto. Chiaro che ho riflettuto al momento della ricandidatura.

Sta a Torino come in esilio.

In Europa la classe dirigente è individuata attraverso le migliori esperienze di governo locale. Qui a Torino il mio compito era di tenere in piedi una città malgrado la crisi. Alla fine, faccio il bilancio e dico: Torino è riuscita a stare in piedi. Anzi, di più: a realizzare il miracolo di progredire nella qualità della vita urbana.

Penso che lei sia sprecato qui. Se Renzi l’avesse coinvolto, avesse utilizzato la sua esperienza…

Non ho capito: parliamo di Torino o di Renzi? La manda Travaglio per farmi parlar male di Renzi?

S’incavola come ai vecchi tempi.

Non m’incavolo!

Ed è anche permaloso.

Non sono permaloso! Vogliamo parlare di Torino o di cosa?

Di Torino e dell’Italia. Lei ha avuto responsabilità nazionali e ho il dovere di porle questa domanda: si è rintanato in questa città, non ha mai preso posizione.

Non è vero. Da presidente dell’Anci ho fatto battaglie campali per cambiare la legge di Stabilità.

Da presidente dell’Anci, appunto.

Ho favorito il ricambio e sostenuto lealmente Renzi. Una stagione nuova si è aperta.

Magari lei poteva spiegargli come si taglia il debito invece di farne altro, come si cura il partito invece di distruggerlo. Continue reading

ALFABETO – PAUL GINSBORG: “Lo ammetto, l’Italia della Leopolda non l’avevamo prevista. Ma uno storico non è un indovino”

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Quella di Silvio Berlusconi è l’Italia peggiore che abbiamo conosciuto, oppure ce n’è un’altra ancora che si appresta a mostrarsi: silente, indolente, affamata e conformista? Paul Ginsborg è maestro di storia patria ma londinese, è cittadino di Firenze ma antirenziano, è teorico della democrazia partecipata ma diffida di Grillo, pieno di passione per la politica e pieno di delusioni dalla politica. Infervorato e militante ai tempi dei girotondi contro Silvio il Re, acquartierato nel suo studio e più defilato oggi.

“Vorrei far sentire la mia voce in difesa della Costituzione per dire no a una democrazia personalistica, autoritaria, spiccatamente familistica. La premessa non mi esime da un’ammissione: no, io non l’avevo previsto che dopo Berlusconi avremmo dovuto fronteggiare quello che a me sembrava un ragazzone voglioso di affermarsi, ambizioso certo ma nella rete dei fenomeni locali. Un sindaco di carattere e poco più”.

Voi professori non ne azzeccate una!

Non direi. Non è compito dei professori guardare la sfera magica e predire il futuro. La serietà dei nostri studi e l’impegno nella sfera pubblica sono le cose che contano. L’università è stata attraversata da un feroce ridimensionamento. Io sono andato in pensione, chi mi ha sostituito? Tagliare la cultura significa impoverire la società, assicurare al potere, di qualunque natura e colore, ancora più argine. Meno analisi critica, meno approfondimento, minore conoscenza.

Ma che tempo è quello attuale?

È un’età di inquietudine, di forte preoccupazione. Che può apparire come indifferenza, con i cittadini oramai convinti che non esista altra possibilità che rassegnarsi. Eppure nella società hanno corpo decine e decine di iniziative magari minuscole e appartate, ma sono cellule attive, orecchie pronte ad ascoltare e a muoversi. Quando si connetteranno, se si connetteranno, scopriremo un’Italia diversa da quella che noi oggi raccontiamo.

Lei è fiducioso.

Sono un po’più ottimista di lei ma non è l’ottimismo o il pessimismo che contano in questa situazione.Continue reading

RENATO SORU. La Rete (bucata) di Mr. 500 parole

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Renato Soru usa le parole come noi le banconote da piccolo taglio. Un mazzetto di poche decine di euro le portiamo in tasca per gli usi quotidiani, il resto (se lo abbiamo) lo conserviamo in banca. Soru possiede meno di cinquecento vocaboli per i bisogni di tutti i giorni, il resto del suo sapere, che pure è largo, lo destina a faccende parecchio più impegnative. “Io penso solo al nuovo che verrà e a come costruirlo”, disse al Lingotto, il luogo mitico della Torino operaia dove Walter Veltroni stava battezzando il Partito democratico. Quel giorno (anno 2007) fece provvista di parole e spiegò che la politica non gli riguardava, non era affar suo e mai sarebbe stata tra i suoi pensieri. “Mai presa una tessera in vita mia e mai la prenderò”. Gli uomini, a differenza degli animali, hanno identità complesse e Soru oggi lo troviamo europarlamentare sfiduciato nel suo lavoro e serenamente assenteista nei banchi di Strasburgo. Fino a qualche ora fa era anche segretario del Partito democratico della Sardegna, fino a qualche anno fa anche consigliere regionale e prima ancora governatore dell’isola dove è nato (a Sanluri) nell’agosto del 1957.

È STATO – seppure per un breve periodo – l’uomo più ricco d’Italia, il primo ad accorgersi di Internet, il primo a fare affari mostruosi fino a detenere una società il cui valore in borsa rasentava quello della Fiat. Con Tiscali, trecento dipendenti nel periodo di splendore, è riuscito a vedere una sua azione valutata 491 euro e il listino dei sogni capitalizzato con un +1067 per cento. Silenzioso, tenace, testardo, ma soprattutto felicemente e persino un po’ spassosamente contraddittorio. Ha iniziato a far soldi costruendo e vendendo supermercati tra Olbia e Cagliari alla Standa, si è lanciato con profitto e preveggenza nell’avventura internettiana, intuendo agli albori del mercato il futuro nel quale saremmo stati immersi. Ha costruito con le sue mani Tiscali e poi con le sue stesse mani l’ha presa a martellate, inguaiandosi per di più. È stato, lo ripetiamo, il più ricco uomo d’Italia. Oggi deve vedere pignorati i suoi emolumenti. Si è iscritto alla Bocconi, ha lasciato la Bocconi pur di essere accanto al padre in momenti di difficoltà (si laureerà a 42 anni). Ha amato come nessun altro politico il mare e le coste sarde tanto da sigillare, con la sua firma, la più bella legge “salva coste”. A meno di due chilometri dall’acqua nessuna altra costruzione ammessa. Naturalmente la sua splendida magione di Villasimius affacciava direttamente sui fondali. Sua la imposizione della tassa sul lusso ai super ricchi. Però sempre sua l’idea di realizzare insieme ai fratelli Merloni e all’immobiliarista americano Bill Walters case da sogno in Costa Smeralda. Ha rilevato nel giugno 2008 l’Unità, ma l’ha lasciata (dopo averla persino un altro po’ sfasciata) appena ha perso la gara di ritorno con il centrodestra: la sfida per il bis in Regione con il berlusconiano Ugo Cappellacci.

DISSE ai giornalisti, mentre comunicava la chiusura delle redazioni periferiche del giornale: “Nessuno di voi mi ha chiamato per ringraziarmi quando ho preso l’Unità”. Disse ai giornalisti, quando annunciò la sua entrata in politica: “Nessun politico mi ha chiamato per chiedere spiegazioni”. Ieri, dopo la sentenza, ha detto: “Voglio star solo”.

Da: Il Fatto Quotidiano, 6 maggio 2016

Figli d’arte e signori delle tessere. Il Sud è tutto una Grande Famiglia

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Come piloni di cemento armato, tutto si tiene se reggono loro. Altrimenti, pouf, la casa va in rovina. Nessuno di voi conosce Raffaele Topo, detto Lello, da Villaricca? E per caso, vi è noto, Mario Casillo, nato a Boscoreale ma possidente in quel di Marigliano? Lello e Mario sono macchine di voti, facitori di tessere, raccoglitori di municipalizzate. Hanno cinto in un abbraccio vittorioso Vincenzo De Luca e lo hanno spinto sul trono di Campania. La catena gira, l’acqua scorre e arriva ai piedi di Matteo Renzi, l’ereditiere.

I voti si pesano e si contano, ma non hanno odore e sapore. E il Sud promette fortune a basso rischio. La vicenda di Stefano Graziano, il consigliere regionale casertano appena finito sotto inchiesta per aver favorito il clan dei casalesi, è il dazio da pagare all’imprevisto. L’indagine, il carcere, i guai giudiziari sono malattie professionali, rischi connessi all’attività. Chi non risica…

TORNIAMO al signor Topo e a Napoli. Lello Topo era il factotum di don Antonio Gava, il boss, il re della Democrazia Cristiana, il generatore di consensi e negoziati. Lello ha la sua scuola nel sangue e una capacità di mettere a profitto gli anni trascorsi insieme al caro leader che è servita quando ha dovuto scegliere con chi accasarsi. È l’uomo forte del Pd, uomo forte di Napoli e della Regione, quindicimila preferenze vista mare. È naturalmente presidente della commissione Sanità. A Napoli c’è Mario Casillo, un altro trasformer di grido, l’invisibile che registra i passi altrui e li decodifica, gestisce le acquisizioni politiche, assicura il governatore dai rischi delle urne. Diciottomila voti, ecco il risultato. Il consigliere Casillo è un’autorità.

Figlio d’arte, come tanti. Perché nel Mezzogiorno il potere si conserva e si tramanda per famiglie che a volte, come accade nel piccolo Molise, socializzano gli utili e producono economie di scala. A Campobasso il presidente si chiama Paolo Frattura, figlio di Fernando, ex deputato. Paolo era con Forza Italia, ma è stato eletto con il Pd. E ha trovato un gattone, così lo chiamano a Termoli, ad accompagnarlo nella sua corsa. Remo Di Giandomenico, già sindaco e già deputato del centrodestra, il gattone appunto, ha scelto l’amico del cuore quando ha dovuto votare per la Regione. E amico è anche Aldo Patriciello, imprenditore della salute e di altro, europarlamentare con Forza Italia. Tre famiglie un nome solo. Frattura incassa e provvede al bonifico: chi guadagna è sempre Matteo Renzi.Continue reading