La malattia ti colloca in una unità di misura strana, fuori del cerchio della vita ufficiale, senza il carburante che gli altri utilizzano per arare l’esistenza. Diventi osservatore, e in questo senso la poesia mi aiuta a riconoscere i segni più minuti della beltà e dell’orrido, del possibile e dell’impossibile”.
Trovo Pierluigi Cappello in ospedale a Udine. Con la sofferenza ha una speciale confidenza avendo ottenuto in dote da ragazzo una eredità feroce: incidente in moto, mesi tra la vita e la morte e poi l’immobilità come condizione permanente, quotidiana. Cappello è poeta della dolcezza, estimatore della rugiada, illustratore dell’odore della fatica e delle magnifiche minuzie. Ma è anche un giovane adulto paraplegico.
“Io sento che l ’acqua scorre fino a un certo punto del mio torace, poi l’acqua scompare come il mio corpo che si mimetizza e si assenta da me”.
Mi ha detto che ha intenzione, un giorno o l’altro, di scrivere un libro sull’amore, sui suoi amori.
Sì, vorrei scrivere qualcosa sull’amore e persino sulla sessualità delle persone in difficoltà. Comprendo che c’è il rischio di essere frainteso, ma sento che il mio corpo così immobile, impermeabile, assente alla vita è un corpo da esplorare. Meglio: lo sento come un corpo di frontiera. Come quei luoghi lontani, inaccessibili, faticosi anche solo a raggiungerli con il pensiero. Nell’amore, nel sesso, mi vedo effettivamente come un esploratore che tenta, a suo modo, di spezzare le catene e incamminarsi per raggiungere la vetta.Continue reading