Ci sarà sangue sulla sua camicia e poi sul corpo. E sulle sue mani, e i piedi, e i capelli. Un po’ di quel sangue che ha allagato l’arena del Bataclan, trasformandola in una pista di morte color porpora, una distesa di braccia allargate sul pavimento nella resa alla disgrazia, atterrate dalla ferocia, è di Valeria Solesin. Un po’ del suo sangue fa compagnia ad Abdesalam Salah ora che fugge e trema, o persino spera di farla franca. Lui è nato nel 1989, lei aveva due anni di più. Una foto sopra, quella di lui, col cartellino della Police Nationale, e una di sotto, quella di lei. “Appel” dice la prima, la stessa parola che c’era ieri a fianco del sorriso di Valeria. “Era una cittadina meravigliosa”, ha detto sua madre chiedendo a tutti di conoscerla per poterla giudicare nel modo giusto, appropriato, degno del talento e dell’energia che aveva. Fosse successo ieri, fossero state pubblicate ieri le due foto, le avremmo tenute unite nell’ansia della scomparsa.
Potevano essere una coppia di amici e finanche di fidanzati. Lui di origini magrebine, lei italiana. Cos’ha del resto il viso di questo assassino? È francese, ha i genitori immigrati come migliaia, anzi milioni di nuovi cittadini. Non la barba lunga, non il turbante, né la faccia coperta, né la sciabola, né il Corano che sono i segni visivi approssimativi, per noi occidentali, del Nuovo Nemico. E lei è una delle migliaia di italiani che vivono in Francia.
I nuovi cittadini d’Europa. Due ragazzi che solo ieri potevano far parte dello stesso gruppo. E anzi lei studiava da sociologa le forme dell’integrazione, documentava i rischi della marginalità, aveva davanti a sé ogni giorno, nel suo dottorato di ricerca alla Sorbona, l’elenco delle questioni più esplosive, la crisi sociale delle banlieu, il rancore che cova dentro questi quadrilateri di subalternità e nuova intolleranza.
Invece oggi sappiamo che l’uno è il carnefice e l’altra la sua vittima. Lui ha massacrato col fucile mitragliatore. Ha sparato per circa venti minuti, raccontano i superstiti. Lui e i suoi due compagni di esecuzione, hanno tirato ad altezza d’uomo, e non si sono mai fermati. E hanno dato il colpo di grazia ai corpi che mostravano segni di resistenza, le mani alzate per chiedere pietà o aiuto. Venti minuti di carneficina.
Valeria, secondo una deduzione logica, è finita subito, presa appena all’ingresso del teatro, quando i primi spari hanno diviso lei dal suo ragazzo, e la sua mano dalla sua borsa. I fucilieri si sono fatti strada con i kalashnikov e ognuno che cadeva lasciava alle loro pallottole la traiettoria aperta per dirigersi su un nuovo bersaglio. Un tappeto di morte sul quale, anche questo purtroppo sappiamo, chi si è salvato è stato costretto a strisciare. Qualcuno l’ha calpestato, qualche altro vi ha trovato rifugio per conservarsi la vita.
Due ragazzi, due cittadini europei. Eppure due vite opposte, anzi vite parallele che non hanno mai incontro e conoscenza, non hanno speranze da condividere né sogni da fare insieme, progetti da realizzare assieme.
Per queste vite, diceva Heidegger, l’unico destino comune è proprio e solo la morte.
Da: Il Fatto Quotidiano 16 novembre 2015