C’è sempre da imparare dai romagnoli e stupirsi di come siano riusciti a trasformare un piazzale d’armi lungo il mare in una spiaggia storica così tanto amata e frequentata. Come sia stato possibile immaginare di affittare delle sdraio e degli ombrelloni nella 31esima fila, a quasi mezzo chilometro dalla prima alga, senza colpo ferire. C’è del talento e si vede. Infatti restiamo inchiodati ai semafori che gestiscono a Riccione il traffico dei milanesi in fuga dalle code e ora, appunto, in coda, perchè c’è l’aperitivo. Sono le cinque del pomeriggio ed è già il momento di rimboccarsi le maniche e prendere contatto con un mojito, prima del passaggio serale con l’apericena e il cocktail e infine, digerite altre code, finalmente al ristorante oppure alla disco. Questi sono giorni funestati dalla scomparsa del Cocoricò, monumento allo sballo divertito e compulsivo e naturalmente terminale glorioso di ogni coda. C’è una storia fatta di sacrifici per accedervi, di attese lunghe, penitenze comuni e gioie intramontabili. La triade Rimini-Riccione-Milano Marittima consegna l’idea che al mondo esista l’ingorgo o poco più. Si rifiata alle viste del Delta del Po, quando la campagna prende forma e si stende senza cemento che la separi.
Il triangolo favoloso Marghera-Mestre-Villorba
A Rovigo si rientra in autostrada per puntare al più imponente distretto del consumo, un triangolo favoloso di ipermercati che si scorge alle viste di Marghera, città nota per il petrolchimico, si allunga fino a Mestre, anzi al cosiddetto Porto di Mestre, e chiude verso Villorba, nel Trevigiano. In una trentina di chilometri uno, due, tre, cinque, sette centri commerciali, cubature che solo a Mestre – come ha scritto Fabio Tonacci su Repubblica – producono 39 mila metri quadrati di superficie commerciale, 111 negozi che pagano ciascuno 8 mila euro d’affitto al mese per riempire i veneti di ogni virgola. Il teorema del consumismo qui si fa pratica quotidiana, e la vita è segnata dagli Auchan, i Decathlon, gli Iper Lando, Iper Coop, iper tutto. Il numero delle rotatorie per raggiungere i cubi dà l’impressione che gli umani utilizzino la vita per girare a vuoto. Vuoto come l’Auchan che ha una trentina di casse installate ma solo quattro in funzione. Perché a furia di costruire per vendere hanno finito per consumare le tasche di chi avrebbe dovuto acquistare. Troppi iper per poca gente, e il conto finale dà alla grande distribuzione un meno 0,5% di fatturato nel 2014. Massimo è titolare di una jeanseria: “Ci stiamo cannibalizzando, siamo troppi e continuano a spuntare senza ragione altri centri commerciali. Prenda la Nave de Vero a Marghera, è un mostro, un deserto. Vada nel parcheggio e troverà un quinto dei posti disponibili occupato. Mi domando sempre perché l’abbiano costruito, che senso aveva se qui a dieci minuti c’è un centro così grande”. Edoardo, negozio di ottica: “Non mi spiego come sia possibile fare tutto uguale, proporre gli stessi oggetti. È chiaro che così non va più”.
Questo pezzo di Veneto grasso e felicemente consumista sta boccheggiando sotto la mole di un’offerta esagerata, oramai ampiamente fuori scala. Svuotati i centri storici, le periferie sono divenute anelli di contenimento di questi mega-neon, le rotatorie si sono trasformate in piazze, i parcheggi in luogo d’incontro e di smistamento di altri traffici. Non c’è parchimetro però e il flusso peripatetico si alimenta – almeno d’estate – grazie all’aria condizionata gratuita, che con questa afa si fa grande questione democratica.
Altre rotatorie, lamiere che entrano nel circuito e loro inquilini che si perdono anche col tom tom in funzione (sesta uscita, prego!), e infine si giunge, così pare, a Villorba. Uno dei primi approdi dell’ipercircuito della vendita a ogni costo, a basso prezzo, paghi due e prendi tre, quattro, cinque. Nell’area industriale spunta una bandiera del Veneto e un cartello: sicurezza. Si bussa e dentro una specie di hangar sbuca Sergio Bertotto e il suo cane Rufus. Sergio coordina la sicurezza del centro ma soprattutto è leader del Movimento di liberazione nazionale del popolo padano. Una iper Lega. “Noi non riconosciamo l’Italia perciò non paghiamo le tasse. Non riconoscendola non dobbiamo neanche dichiarare le ostilità. Applichiamo il diritto internazionale e i nostri soci, all’atto del tesseramento, sottoscrivono una dichiarazione di sovranità personale e nazionalità veneta”. Bertotto mi consegna il foglio che al primo articolo recita: “Ogni essere umano è originale e titolare esclusivo del proprio corpo fisico costituito da carne, ossa e sangue”. La questura di Treviso più volte ha fatto visita all’oppresso che, negli anni di gioventù, faceva il poliziotto. “Vengono, sequestrano, ingiungono. Ma io non mollo. Non riconoscendo l’Italia non riconosco neanche la sua giustizia”.
Sarà il caldo, ma l’iperleghista che fa la guardia all’ipercentro è un altro segno di smarrimento più che di vitalità. Qui si fanno schei e anche se la crisi è stata dura, la mole di camion incolonnati verso sud e verso est dimostra che il destino dei veneti è negli affari. Un amore pazzesco e intramontabile, e se non ci fosse di mezzo il portafogli diremmo un legame di cuore.
Dai saldissimi ai 22 di Topolò
La via della bassa apre al Friuli e conduce verso Tricesimo, altro binario parallelo di vendite al dettaglio e all’ingrosso. Arredamenti e celle frigorifere, cucine componibili, cementifici, outlet e saldi, “saldissimi d’estate”. Il ronzio dei mezzi meccanici si acquieta solo quando la strada si allunga verso la Carnia, costeggia la terra del gran prosciutto di San Daniele e poi avanza tra i monti. Invece piego verso est, verso la Slovenia perché oggi, domenica, è la giornata conclusiva dell’appuntamento che da 22 anni concentra a Topolò artisti e visionari di varia natura. Topolò è sul confine della Slovenia e il suo bellissimo nome riassume il concentrato di una criniera di pietre in bilico. 22 abitanti in tutto, la farmacia a 10 chilometri, come pure il panettiere. La stazione di Topolò è la fermata spirituale e letteraria, il luogo dove narratori, poeti e viandanti si danno appuntamento per far vivere con la cultura queste case vuote. Ogni anno si edita un libro scritto nell’inverno precedente da un ospite che consegna la sua arte alle pietre e il suo corpo al paese vuoto. Sei mesi di permanenza, il tempo della semina delle parole e poi, in luglio, la festa del ritrovo.
Da Il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2015