Ci sono guerre che mietono morti senza bisogno di fucili, necessità costruite sulla suggestione, soldi infiltrati nelle anime come bustine di eroina in vena. Tra i molti dopoguerra conosciuti quello che segue un grande terremoto è il meno indagato.
Siamo andati a bussare alla porta di Pierluigi Cappello per saperne di più. Lui costruisce, modella, seziona, riduce, allunga. È tra i più ingegnosi poeti italiani. È il pluripremiato artigiano della parola – tronca oppure distesa come lucertola al sole, scivolosa o anche cruda, gentile e persino generosa – e vive a Cassacco, lungo la strada che conduce il Friuli in Austria. Cappello è nato a Gemona (Udine) e ha conosciuto gli effetti del terribile terremoto del 1976.
Il terremoto è una grande guerra.
Da noi la lavatrice giunse nel 1975. Era una società contadina, arretrata, dove persino l’orografia dei volti, le dentature marce, mancanti, dischiuse, raccontavano una vita che si tramandava oralmente attraverso i dialetti. Quella scossa, quel botto non è stato solo un grande problema per le murature delle case, per il cemento armato che cedeva…
La ricostruzione in verità ha rasentato la perfezione.
I friulani sono stati compassionevoli con le loro pietre. Le hanno numerate, accarezzate e ricomposte. Gemona o Venzone sono esempi di una ricostruzione che ha avuto memoria, che non ha sventrato.
Invece sono stati sventrati gli animi, la cultura, i bisogni.
Il flusso finanziario imponente droga la società, comprime la memoria a favore dei nuovi bisogni. Non c’è più solo il mais nei campi al posto delle vecchie colture ma un regime di vita sconosciuto, il possesso di oggetti a cui questo popolo non era abituato. Si perde d’un colpo l’uso di attrezzi durevoli, compagni di una vita come l’ascia, la zappa che avevano manichi nodosi e lucenti, l’aspetto levigato dalle mani e dal tempo.
Ora ci sono i centri commerciali…
È tutto un centro commerciale. Questo nord-est è divenuto il quadrilatero dell’offerta formativa di bisogni effimeri eppure impellenti. La società dopata si nutre di necessità inderogabili, assolute. Ognuno scaraventa i suoi sogni nell’atto emulativo. La televisione fa sognare, e la pubblicità è la costruzione strategica del bisogno. Una necessità dopo l’altra, un acquisto dopo l’altro. Le case non ce la fanno più a ospitare i nostri oggetti, le nostre tasche hanno sempre urgenza di contante, oppure – ancor meglio – di danaro elettronico. È tutto un pagherò.
Sapesse cosa è successo al sud, in Irpinia, terra di un altro terremoto disastroso, quello del 1980. Quattrocentomila vani costruiti in più del bisogno effettivo, case nuove ma già vecchie perché disabitate, strade deserte, gente in fuga da un presente che i soldi hanno reso disperante.
Immagino. Noi friulani siamo stati più fortunati da questo punto di vista.
Forse anche più prudenti, più assennati, più rigorosi…
Gli aggettivi non sono il mio forte, ma certo qui la guerra è stata conosciuta, come pure la fede nel sacrificio, nella fatica. Però i soldi della ricostruzione, quella dose finanziaria imponente, ha fatto i suoi danni. La corsa sfrenata e naturalmente imprudente verso ciò la modernità ha segnato la cultura, il modo di vivere, ha modellato i nostri difetti.
Lei vive ai bordi di una strada.
Mi piace vedere scorrere le auto e i camion. Io sono nato in una terra di transito.
Alleggerisce il peso della distanza dalla città. Qui a Cassacco che si fa?
Il mio corpo ha bisogno di attenzione e di un ritmo lento. E qui, in questo paesino, può godere di vantaggi che altrove sarebbero impossibili. Sono disabile, e la mia sedia a rotelle mi fa osservare il mondo da un’altezza di un metro e venti. A Roma la mia vita sarebbe semplicemente impossibile, e non solo per il ritmo che la metropoli richiede e che il mio corpo non tollererebbe. In Friuli c’è una legge regionale, la 162, che mi assegna un contributo economico. Mi permette di avere assistenza in casa, di godere di una rete di protezione autonoma e resistere alla prospettiva di una ospedalizzazione precoce che sarebbe assai più costosa per il bilancio pubblico.
Una legge umana è più di una carezza compassionevole.
È giusta, quindi umana.
Da Il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2015