La fama del professor Serge Latouche è inchiodata al concetto di “decrescita felice”. Due parole per un sogno. Anche a Ripe San Ginesio, sulle colline marchigiane, una tappa dei frequenti tour italiani in cui il fascinoso bretone, filosofo dell’economia, illustra le opere e le omissioni del capitalismo avanzato, c’è ressa per capire in quale diavolo di guaio noi occidentali ci siamo cacciati.
Professore, vorranno sapere come si fa a divenire più piccoli, più poveri ma più felici.
La decrescita è uno slogan non una ricetta economica. È uno slogan fortunato, perché corrisponde a un’esigenza sentita, collettiva, perché riflette un’angoscia che si fa ricorrente: questo mondo non soltanto non ci piace più, ma non riusciamo a sopportarlo più.
Sembra poesia più che economia
Può darsi. Posso dire che la crescita, questa parola che rende così eccitati fior di miei colleghi economisti e banchieri e finanzieri e capi di Stato e di governo, è un termine rubato alla biologia. Il seme cresce e si trasforma in albero. Un neonato cresce, diviene bimbetto e poi uomo. C’è la morte che ci attende. Invece in economia la crescita tecnicamente ha un orizzonte infinito: si cresce, si cresce, si cresce ancora.
La pancia della rana che alla fine scoppia…
Per venire qui da Roma l’auto che mi ha condotto ha impiegato del tempo e una risorsa: il petrolio. Avremo consumato almeno 30 litri, giusto?
Ci siamo.
Sappiamo che quella fonte un giorno a noi relativamente vicino finirà.
Sembra di sì…
Possiamo immaginare di non tenerne conto?
Vero, sempre più spesso facciamo in modo da dimenticarcene.
E se la crescita è tecnicamente infinita: oggi più grande di ieri, domani più di oggi, e dopodomani più di domani, come crede che essa si distribuirà in un luogo finito qual è la terra?
Crescere per far stare meglio il massimo numero di abitanti in questo mondo…
Lei ha notizie in proposito che l’autorizzino ad affermare che le diseguaglianze si stanno riducendo?
Purtroppo no…
È il sistema su cui si fonda la vita di ciascuno di noi, l’idea della conquista del benessere, il concetto stesso di buon vivere, che ci conduce a un’esistenza folle e drammaticamente infelice. È l’idea che cinquant’anni fa per mangiare una mela io potessi coglierla d al l’albero e che oggi quella stessa mela debba macinare decine, se non centinaia o migliaia di chilometri conduce alla devianza dei nostri comportamenti. La chiamano globalizzazione invece è soltanto ipersfruttamento, consumo esagitato e violento delle risorse naturali, produzione ingiustificabile di picchi di profitti che si trasformano in rendite finanziarie.
È necessario fermarsi.
Fermarsi e riflettere. Cosa ci dice la crisi greca? L’insostenibilità di una idea di sviluppo che si fa parossistica, che impoverisce, intristisce e uccide invece che rendere avanzato e sazio un popolo.
Un’altra definizione clou è “sviluppo sostenibile”…
Una truffa completa, una manipolazione della realtà. I grandi capitalismi avevano bisogno di addolcire la loro pratica distruttrice e con un aggettivo carino, ecco, appunto, sostenibile, hanno legittimato il loro schema di sviluppo. Il grande fraintendimento è che la sostenibilità pareva una difesa della natura contro le aggressioni dell’uomo, ed è divenuto invece l’alibi perfetto, il piede di porco con cui si sfonda ogni porta.
Siamo più poveri e più infelici…
Abbiamo mitizzato il lavoro, elaborando l’idea che senza una fatica quotidiana e massacrante la nostra vita non avrebbe senso. Si chiama work alcholism, è la definizione dei nuovi disperati, di coloro che se non lavorano non sanno cosa fare.
Lavorare meno e lavorare tutti…
Conosce il concetto delle tre erre?
È una specie di sol dell’avvenire?
Rilocalizzare, riconvertire, ridurre.
Da Il Fatto Quotidiano, 11 luglio 2015