La fama del professor Serge Latouche è inchiodata al concetto di “decrescita felice”. Due parole per un sogno. Anche a Ripe San Ginesio, sulle colline marchigiane, una tappa dei frequenti tour italiani in cui il fascinoso bretone, filosofo dell’economia, illustra le opere e le omissioni del capitalismo avanzato, c’è ressa per capire in quale diavolo di guaio noi occidentali ci siamo cacciati.
Professore, vorranno sapere come si fa a divenire più piccoli, più poveri ma più felici.
La decrescita è uno slogan non una ricetta economica. È uno slogan fortunato, perché corrisponde a un’esigenza sentita, collettiva, perché riflette un’angoscia che si fa ricorrente: questo mondo non soltanto non ci piace più, ma non riusciamo a sopportarlo più.
Sembra poesia più che economia
Può darsi. Posso dire che la crescita, questa parola che rende così eccitati fior di miei colleghi economisti e banchieri e finanzieri e capi di Stato e di governo, è un termine rubato alla biologia. Il seme cresce e si trasforma in albero. Un neonato cresce, diviene bimbetto e poi uomo. C’è la morte che ci attende. Invece in economia la crescita tecnicamente ha un orizzonte infinito: si cresce, si cresce, si cresce ancora.
La pancia della rana che alla fine scoppia…
Per venire qui da Roma l’auto che mi ha condotto ha impiegato del tempo e una risorsa: il petrolio. Avremo consumato almeno 30 litri, giusto?Continue reading