QUI LA MORTE e la vita si incontrano. Chi spinge e chi resiste come si fosse in quelle file al botteghino per guadagnarsi il biglietto di uno spettacolo imperdibile. Esiste l’enormità della vita, l’impellenza che essa rimanga tale e che il corpo riconquisti la luce, gli occhi si riaprano, e la bocca, le mani, le gambe ritornino nella loro condizione originaria. Ora sono manichini sdraiati, denudati, immobili, bucati da aghi, tracheotomizzati, tenuti al caldo o al freddo da elettrodi, coperti per compassione da un telo verde. Incoscienti, incapaci, quasi perduti.
Guarire con la speranza
Nella sala di terapia intensiva del San Giovanni Bosco, ospedale torinese, la giornata segue i beep delle macchine, e le macchine aggiornano i monitor, i monitor registrano i battiti, assistono il ritmo ossessivo della lotta finale. Si può essere felici in questa valle di lacrime, in questo deposito di dolore, in questo teatro di piaghe infinite, di esami ricorrenti e quasi sempre inconcludenti? Sergio Livigni ha il compito di dare speranza a chi non ne ha più, e offrire una ragione alla crudeltà del destino, un motivo alla scelta di resistere, una speranza alla disperazione. Da medico dirigente, è lui il primario del reparto, ha scelto di trasformarsi in motivatore, in una macchina della fiducia. Ed è straordinario quel che succede in questa piccola fabbrica della vita. Perché lo Stato arrivava a pagare anche 2.500 euro al giorno (ora meno) per assistere chi lotta, ma non riesce a dare sorrisi o lacrime a quelli che accompagna. Non riesce a essere umano. Livigni invece ricerca oltre la terapia l’umanità, un sorriso, studia il benessere, teorizza la cura del conforto, la mano nella mano, l’amore come riabilitazione.
In Italia c’è un vetro che separa l’ammalato dalla famiglia, sono trenta, al massimo sessanta i minuti di ospitalità al giorno tra le luci al neon. Non si entra perché si disturba, non si entra perché si infetta, non si entra perché si inquina il clima operoso dell’équipe. Io sono medico e tu nessuno. “In una giornata intera trascorro meno di un’ora con i familiari e a ciascuno dedico cinque minuti. Ci liberiamo da un’ossessione e ne siamo compiaciuti”, scrive – denunciando il costume nazionale – Daniele Poole, collega di Livigni, intensivista al San Martino di Belluno. Questo reparto di Torino è invece un miracolo di umanità ed efficienza, di sofisticazione della terapia medica e semplificazione della burocrazia ostruttiva. Qui a Torino non c’è scala verticale delle competenze, ma comunione, spirito di gruppo, interazione, aiuto, condivisione. E c’è fatica quotidiana, passione infinita. L’appuntamento con Livigni è alle nove, nel suo studio. Lui, la scrivania, il computer, un portapenne, due foto appese che ritraggono i suoi tre figli. Un maschio e una femmina. “La mia è una ricerca. Ho seguito molti corsi prima di adottare il modello della terapia intensiva aperta. Formiamo gli operatori anche con corsi teatrali il cui scopo è quello di aiutare il personale a capire meglio se stessi in modo da riuscire meglio a sostenere il paziente. Io sono molto fiero di questa équipe di lavoro, è il mio vanto e mi piace dirlo: medici, infermieri, assistenti sanitari, la stessa donna delle pulizie fa parte di questa piccola bottega.
La verità è che noi italiani siamo conservatori, il problema dell’Italia è culturale, temiamo i cambiamenti. Ma cambiare fa bene, aprire le porte ai familiari fa bene. Basta lavarsi le mani e poi tutto è permesso. I virus letali sono quelli ospedalieri non il nostro raffreddore. Noi apriamo le porte alle mogli e ai mariti, ai figli e ai nipoti. Porte aperte a tutte le ore. Entrino quando vogliono ed escano quando desiderano. Noi li consoliamo, il nostro obiettivo è quello di creare le condizioni di cura senza perdere di vista la relazione affettiva”.
Corsi e senza barriere
Entriamo anche noi. Non ci sono pareti ma una linea gialla ci indica il punto da non oltrepassare. Dietro i letti, come una quinta teatrale, il corridoio e le porte di accesso al familiare. Ciascuno conosce la sua porta, il suo papà, la propria angoscia. Entra e si siede. Non si pensa quasi mai alla condizione delle famiglie, alle tragedie che si doppiano: oltre al dolore e alla paura che si perda una vita cara subentra anche l’impoverimento economico, l’abisso finanziario dentro il quale si sprofonda per sostenere quell’emergenza. Bisogna rompere ogni salvadanaio per attrezzare conforti operosi o solo compassionevoli, lunghi turni quando l’ammalato ritornerà a casa di assistenza domiciliare a pagamento.
Un’ora tra la vita e la morte
Ci sono le famiglie, è vero. Ma c’è anche chi è solo, come questo signore che si è sentito male al bar, ha chiamato i soccorsi e ha ottenuto quello che forse mai dalla vita è riuscito a guadagnarsi. Un’assistenza perfetta. Un’ambulanza attrezzata è riuscita a far fronte a un arresto cardiaco che si è rimanifestato al pronto soccorso ed è infine stato trattato qui. Situazione disperata. In cinque si accaniscono su di lui, e bucano, aprono, tamponano. Giacomo Boccuzzi, cardiologo emodinamista, sta tentando l’impossibile, sta armeggiando con quello che sembra uno stelo ferrato, gli infila qualcosa come per pungere questo cuore svogliato e assente. Dopo un’ora di ossessione lascia alle infermiere il compito di suturare, drenare. “Questo caso ha il massimo della criticità e non ci sono valutazioni mediche, solo congetture. Non so se campa, se passa stanotte o se muore adesso mentre sto qua. È una condizione così estrema che ogni intervento risulta essere un palliativo. Però proviamo e speriamo”. Questo reparto ha una performance altissima di successi: la mortalità si è assestata al 16 per cento dei casi. Significa che da qui si esce vivi più di otto volte su dieci. E in molti riacquistano le funzioni che avevano perdute, riacciuffano i piaceri, gli amori, la famiglia. La qualità dell’assistenza primeggia anche se confrontata con l’universo sanitario europeo. In Italia ci sono altre strutture, come lo choc trauma center del San Camillo di Roma, che eguagliano le percentuali di successo. Ma purtroppo esiste una lunga teoria di cifre dove la mortalità raggiunge il trenta per cento, in alcuni casi supera il quaranta, con punte negative del 42, 43 per cento. Conta la competenza, l’applicazione, la fatica, il talento. Ma contano, ed è dimostrato, anche l’affiatamento dello staff, l’umanità, il sostegno psicologico che questa stanza permette di offrire e altrove invece è precluso. Conta persino che i bambini possano abbracciare i loro nonni. E qui da tre anni in poi è permesso entrare, certo con un pedagogista al fianco. I bambini stupiscono sempre, ed è sempre sorprendente vedere con quanta spontaneità si relazionano con gli ammalati.
In questa piccola fabbrica della vita chi organizza turni e prestazioni e sorveglia le cartelle cliniche come fosse una tabellina di marcia è Virna Venturi. Da Livorno parte ogni domenica sera e ritorna il venerdì. È una pendolare per passione. “Riesco a lavorare con il dovuto distacco altrimenti questa professione può condizionarti la vita. Non posso immaginare di vivere pensando continuamente al peggio che potrebbe capitarmi. Vivo il dolore senza temerlo e quando esco di qui mi concentro sulla bellezza non sulla fragilità della nostra esistenza”. Anche Vito Giambalvo ha scelto questo posto. Ha 28 anni e fa l’infermiere: “Io noto se il paziente è soddisfatto e contento del lavoro che ho fatto”.
Il lungo addio di Immacolata
Le morti inattese sono pochissime, i medici si accorgono già quando il tipo di intervento diventa inutile. E infatti mi indicano chi tra questi letti non si risveglierà più. Lì c’è Immacolata con sua figlia Anna accanto al marito Marco, 75 anni, che giace inerme. Lei è una donna minuta, ma forte, coraggiosa, sorridente. Racconta la loro storia bellissima e infinita: “Io e Marco siamo calabresi, ci siamo trasferiti in Piemonte per lavorare in fabbrica. Ho avuto lui vicino per cinquant’anni e adesso sono due mesi che dormo sola nel letto. Sono due mesi che non mi guarda. Perché non mi guardi più tesoro mio? Io vorrei che mi guardasse, vorrei fargli capire quanto lo amo. Da giovani ci piaceva ballare. Mi cingeva i fianchi con le sue mani e mi conduceva in un posto fantastico, accessibile solo a me e a lui. Mi ha resa felice, mi ha amata anche lui tanto. Volevamo dedicarci ai nostri nipoti, al nostro giardino. Adesso avremmo potuto farlo perchè nostro nipote sta meglio. Il peggio sembrava passato e all’improvviso è toccato a lui. Era fine febbraio. Da allora ha chiuso gli occhi e non li ha più riaperti. Dio mi sta togliendo mio marito e io non sono ancora pronta per lasciarlo andare. Oggi è martedì, ho chiesto ai medici di fare il possibile per tenerlo in vita fino a sabato, voglio che mia figlia e mio nipote riescano a dirgli addio. Non chiedo altro. Ti amo Marco”.
da: Il Fatto Quotidiano 26 aprile 2014