L’UNICO capitale di Giulio sono le sue mani. Con queste mani, nere come il carbone, nere come la galleria che sta scavando, manda avanti la vita sua e quella della famiglia. Millecinquecento euro al mese per otto ore al giorno, per sei giorni su sette. La sua branda è al campo base di Lauria sud, nel crostone lucano che avanza verso il Tirreno e separa la Campania dalla Calabria. Insieme ad altri trecento compagni: lucani, calabresi, friulani, bosniaci, slovacchi, greci. Ospitati in queste baracche moderne, parallelepipedi adagiati l’uno di fianco all’altro. Nell’ordine che gli italiani hanno conosciuto nella loro lunga storia di emigrazione. I campi di lavoro si somigliano tutti: quelli delle acciaierie della Ruhr, nei dintorni di Dusseldorf, o verso Stoccarda per chi trovava l’ingaggio alla catena di montaggio della Volkswagen. Per i più sfortunati c’era la fatica a Marcinelle in Belgio, oppure i cantieri stradali nel land di Amburgo. Quelle casette erano di legno, e c’era più neve, più freddo, e pareva un mondo ostile. Mondo lontano e perduto, amore mio.
Le case di lamiera
Queste residenze invece sono di un profilato bianco, una lamiera confortevole, temperata, asciutta. Messe in fila, chiudono lo spazio ai quattro lati. Al centro la piazza di asfalto, poi la mensa. Sono tutti operai, in un tempo che sembra non ne conosca più. Operai al lavoro per raddrizzare l’autostrada più svergognata d’Italia. Dare una reputazione, una dignità a questa via che per anni è stata teatro dello spreco, luogo della manomissione illegale da parte delle ’ndrine agguerrite, simbolo dell’abuso costituente. Bisogna ripulirla da ogni peccato. La fine dei cantieri è prevista per il 2015, lunghi tratti però già ora sono percorribili e adeguati. Qui a Lauria, i lavori sono iniziati nel 2011 e sono più sostanziosi e possenti che altrove. Le opere di ingegneria più sofisticate con la costruzione di lunghi tracciati in quota. “La nostra tabella di marcia è rispettata. Questo cantiere ha aperto nel 2011 e chiuderà nel prossimo dicembre, secondo i patti. Anche l’Anas qualche volta mantiene le promesse, e sono orgoglioso di questo”, dice Francesco Ruocco, il responsabile del procedimento che sovrintende al timing dei lavori. Sono le sette di sera, aspetto che arrivi la navetta dal cantiere che trasporta verso la doccia i primi turnisti della galleria. Quattordici uomini, più anziani che giovani. Ecco Giulio, avevo appuntamento con lui, anzi con le sue mani. “Ora sono sporche, aspetta che ritorno pulito e pettinato”. Lui risiede nel corpo F. Il mio alloggio (sono ospite della Fincosit, l’azienda che ha in appalto il macrolotto 3.1 – costo stimato 450 milioni di euro – e funge da general contractor) è al corpo C, nella stanzetta numero 6. In otto metri quadrati c’è posto per il letto, la scrivania, l’armadio. Chi vuole, può portare da casa il televisore. Il bagno e la doccia servono due stanze. In cucina tre donne attendono che si faccia la fila. Espongono la felicità: tagliatelle al ragù, carne arrosto, patate, insalata. “È meglio che stia lontano dai vassoi, il cardiologo mi ha imposto di dimagrire”. Giulio ha il corpo più vecchio della sua età, i capelli sono bianchi, una macchiolina gli segna l’occhio destro. Non gli manca il lavoro, piuttosto la salute. “È il cuore che mi dà pensieri, il cuore che mi fa soffrire. Ho avuto un malanno nel cantiere, mentre lavoravo. Ho sentito una fitta, i compagni mi hanno portato in ospedale e i medici hanno scoperto questo problemino. Ho paura solo del mio cuore, ho anche un po’ di diabete e devo dimagrire. Ma sono l’unico che porta a casa il pane, e qui mi trovo bene”. Giulio abita a Pedivigliano, nei pressi di Cosenza. Ha una moglie, due figli, un nipotino. Ha fatto sempre il minatore e malgrado i malanni continua a farlo. “Dopo la malattia mi avevano alleggerito il compito. Facevo il moviere: dovevo solo agevolare l’ingresso dei camion nel cantiere e far rallentare le auto, provvedere ad alzare la bandiera rossa del pericolo. Ma è un lavoro banale. Si sta sempre fermi. Se stai fermo non fai niente e io non voglio sembrare sfaccendato. Minatore ero e minatore resto. Perciò ho chiesto di rimettermi al mio posto, sono felice così. Solo che a sera mi viene un po’ di malinconia, penso a mia moglie che aspetta tutta la settimana. A volte mi prende la paura che la salute mi abbandoni all’improvviso. Chi penserà alla mia famiglia?”. Mani come queste hanno costruito l’Italia, l’hanno onorata, e continuano a farlo. Sono volti puliti, generosi e orgogliosi. Nicola è giovane, ha gli occhi che luccicano come stelle d’agosto, i denti storti, le orecchie a sventola. È rumeno, e si è trasferito in Italia nove anni fa. Viaggia da quando aveva 18 anni: ha visto la Spagna, la Francia, la Russia, poi però ha scelto l’Italia. Si è innamorato di una ragazza di Boscoreale, vicino Napoli, dove vive. E da anni fa su e giù per la Salerno-Reggio Calabria. Addetto alle trivelle, la macchina che buca, sporca, martella le orecchie: “Pensavo che fosse un lavoro stupido, invece ho capito che è una bella mansione, ti fa crescere, ti fa comprendere cosa è il sacrificio. I miei amici sono tutti qui, i miei compagni di questo campo. Non ne ho altri. Mi trovo bene con loro e penso che sono fortunato. Gli unici momenti cattivi arrivano di lunedì, quando manca qualcuno. Vuol dire che la ditta non l’ha richiamato, che ha finito col lavoro”. Bisogna essere concentrati, sopportare turni lunghi, tenere testa, per chi lavora ai ponti, al vento che qui è cattivo e alla neve che quando prende piede non la smette, al sole che d’estate picchia come un forsennato. Bisogna affrontare la malinconia e sconfiggerla, soprattutto quando si è in galleria. Lì si lavora in un ambiente definito “anti deflagrante”, ventilato da un mastodontico bruco di gomma che conduce l’aria da fuori. Siamo nel cuore della Serrarotonda, è la galleria più lunga dell’autostrada, tre chilometri e settecento metri. Stanno armando le volte. I minatori fanno saltare la roccia, i ruspisti ripuliscono il varco, i carpentieri seguono alla luce dei fari e adagiano alle pareti il ferro incatenato, poi la guaina impermeabilizzante che trasforma il buco nero in un foro bianco. È la messa in opera più delicata, la montagna si mangia metro per metro. Quando l’armatura sarà completata entreranno in azione gli asfaltisti, gli elettricisti, gli altri specializzati. Ci sono altri settecento metri da fare, e servono otto mesi. “La prima volta che misi piede qui mi fece strano. C’era un’aria nuova, ma non mi piaceva, poi mi sono abituato e tutto si tiene”. Tutto si tiene, è vero. Giovanni, anche lui calabrese, adagia le mani sulla forchetta. È tempo di mangiare, le tagliatelle aspettano. Dovrebbero essere contenti di tornare a casa tra un po’, contenti che il lavoro stia procedendo bene e che finora, come rileva il direttore tecnico, l’ingegner Pasquale Esposito, “nessuno si sia fatto male. La sicurezza sul lavoro qui è una necessità inderogabile, il minimo errore produce un conto salato”. “Il lavoro dura fino a dicembre, e poi cosa ne sarà?” chiede Josnak. È bosniaco, il suo compito è salire in alto, stare adagiato su queste colonne d’acciaio che sembrano puntare al cielo. Deve fare attenzione al vento, imbracarsi bene, mai distrarsi. Lavora a 150 metri d’altezza, sotto di lui una gola profonda e il suo capo cantiere che governa i passaggi. Roberto è il capo squadra della Cimolai, una ditta friulana specializzata in ponti d’acciaio. Lui ne ha costruiti ovunque: “Ad Atene, in Africa, in Europa continentale. Vengo da Pordenone e questa è la mia vita. Stiamo costruendo un’opera difficile e sono orgoglioso che la mia azienda abbia chiesto a me di gestire il cantiere. Non è facile, sa? Gli operai sono di nazionalità diverse, hanno caratteri differenti e anche esigenze differenti. Bisogna saper ascoltare, capire e anche tenere la mano ferma quando si deve. Sono veramente orgoglioso di stare qui, di contribuire a realizzare questa grande opera. È la verità, sono sincero. Stiamo lontani da casa e facciamo tanti sacrifici. Poi però, quando i lavori li concludi ti dici: capperi, questa strada l’ho fatta io!”. Hanno chilometri nel loro corpo, non sangue. Chi dieci, chi otto, chi dodici anni di autostrade. Sono corpi vagabondi e mani straordinarie. Non avranno il bonus promesso da Renzi: la loro paga supera per qualche euro la soglia dei 1.500. Millecinquecento euro per conoscere questa fatica, e vivere la distanza dagli affetti come un privilegio! La mensa ha le luci ancora accese, ma i primi turnisti cercano il letto. Alle nove e mezza si va a dormire. Bisogna essere in piedi prima che faccia l’alba. “Io invece gioco al solitario, mi distendo così – dice Franco, 51 anni, magazziniere, di Lamezia Terme –Non sono pentito del destino che mi ha riservato la vita. In fin dei conti questo lavoro mi permette di aiutare la famiglia, di avere dignità, di concedermi anche del superfluo. Leggere il giornale quando ne ho voglia, per esempio. E ho un lavoro che mi permette pure di pensare. Penso al capitalismo, al sistema che ti costringe a fare queste scelte estreme e a sentirti persino fortunato. Tu non sei come quegli altri che vagano nell’ombra, che aspettano il sussidio di disoccupazione o un lavoro che mai vedranno. Tu il lavoro ce l’hai. Penso a chi non si accontenta mai e penso a noi operai che riusciamo a essere felici, persino qui. Ci dedichiamo a questa strada come fosse la nostra fidanzata. E l’unica preoccupazione è a quando sarà conclusa, e a che ne sarà di noi”.
da: Il Fatto Quotidiano 29 marzo 2014