Garibaldi è ancora fermo a Marsala

L’EROE DEI DUE MONDI ASPETTA IL MONUMENTO ALLA SUA IMPRESA DAL 12 MAGGIO 1860, IL GIORNO SUCCESSIVO ALLO SBARCO DEI MILLE IN SICILIA. TERRA DOVE È TUTTO FERM O, A COMINCIARE DAI TRENI: DA CASTELVETRANO A PORTO EMPEDOCLE-AGRIGENTO LE STRADE FERRATE E LE STAZIONI SONO ORMAI ABBANDONATE DAL LONTANO 1986binariomorto
La stazione di Alcamo è un bel covo di rondini. Lasciata in territorio franco, una campagna aperta e assolata, è stata presto conquistata dall’aria e dalla terra agli animali. Le rondini hanno deciso di realizzare nel salone desolato e lungo la pensilina defunta una piattaforma mediterranea di partenze e arrivi, una centrale demografica della loro specie, un sistema di cure per volatili infermi o affaticati, per gli appena nati, rondini-baby bisognose di attenzioni. Da terra, i cani randagi presidiano la piazzola d’ingresso in un via vai impressionante, un traffico di bocche affamate e assetate, meste testimoni dell’inoperosità dell’uomo. C’è, è vero, un capostazione. È solo al comando. Qualche vagone ancora parte, direzione Palermo. Quanti viaggiatori si affaccino fin quaggiù è questione aperta al mistero.
La ferrovia va a scartamento ridotto, i treni la raggiungono quando possono, come possono. Meglio l’auto o, naturalmente, il bus. La costa meridionale della Sicilia occidentale è un lungo, impressionante binario morto. Ramo secco non solo la ferrovia, ma gli arbusti, i terreni, le case, i paesi e le città. Limpida metafora dell’inutilità, della superfluità, di un’Italia da mandare in cantina, sotterrare alla vita civile, lasciarla deperire, mortificare, annullare in un’agonia disperata. Non c’è Stato quaggiù. Ed è così visibile l’assenza di un ordine che la bellezza straripante della natura riesce a malapena a mitigare lo sforzo della classe politica di rendere inospitale un’esposizione universale della cultura classica e di quella araba, incrocio formidabile di conquiste, terra da sbarco, terra da guerre e di fede. Di là c’è Marsala, e i Mille di Garibaldi. Ma prima, verso Calatafimi, il treno dei desideri, se solo ci fosse, ci condurrebbe a Segesta, antica città dorica. Il suo magnifico tempio domina la valle e alla sua ombra è defunta la ferrovia. Roba vecchia, inutile, dismessa. Non c’è nulla che funzioni più, l’ultimo treno è passato da qui il 25 febbraio di quest’anno. “Allontanarsi dai binari, treno in transito”: è il nastro registrato che continua a fare imperterrito il suo lavoro. “Si avvertono i signori viaggiatori”… Si piange o si ride?
La strada ferrata si chiude per vecchiaia. Una frana che non si ripara, un ponte che inizia a scricchiolare, un binario che si sbullona. Ovunque è stato così. Quando la manutenzione diviene necessaria, la scelta è quella di fare l’opposto: invece che riparare la strada ferrata, meglio chiuderla. Ma dolcemente. In una prima fase vengono sospese, temporaneamente sia chiaro, le corse. Passano i mesi e la sospensione diviene definitiva. Con gli anni la linea viene raggiunta e accerchiata dalla vegetazione, quando non asfaltata se lambisce case o piazze. Rfi, la società pubblica che ne è titolare, chiude spesso un occhio quando non tutti e due. Del resto, che importa? È un ramo secco consegnato all’aldilà!
L’oltraggio all’Unità d’Italia
Se esiste una ragione del fatto che i nostri beni culturali sono messi così male, è anche perché sfibriamo sistematicamente, dolosamente e con una crudeltà inaudita il viaggiatore, turista o viandante, che voglia visitarli, accudirli, ritrovarli. La forza maestosa della memoria, queste colonne greche che si aprono al cielo meriterebbero di essere soltanto rispettate, magari connesse le une alle altre in un itinerario turistico segnato da testimonianze così preziose. Aperte alla vista, alla visita, disponibili con chi ha piacere di mirarle.
Esisteva un binario che collegava Segesta ad Agrigento e le sue vestigia, le sue meraviglie ancora intatte. C’era una via di transito tra una natura spettacolare, tour tra le ricchezze archeologiche e insieme attraversamento delle città di mare che si affacciano davanti alle coste africane. Poi più niente. Se il ministro dei beni culturali Massimo Bray dovesse domandarsi il motivo per cui l’Italia malmena i suoi tesori, ne avrebbe davanti a sé mille. Ma potrebbe ottenere, se volesse impegnarsi a cercarlo, un elenco lungo e preciso di mandanti politici, responsabili ai quali imputare il degrado, l’abbandono, lo spreco.
Se solo il ministro sapesse, per esempio, cosa hanno fatto a Giuseppe Garibaldi gli si rizzerebbero i capelli. Dovevano erigere un ceppo alla memoria. Racconta Giacomo di Girolamo, giornalista di Marsala: “La prima delibera che annuncia il monumento è del 12 maggio 1860, il giorno dopo lo storico sbarco. Nell’attesa viene posta una colonna celebrativa, distrutta da un temporale poco tempo dopo. Non ci sono i soldi, passano gli anni e arriva un finanziamento per la costruzione, siamo agli anni Venti, di un progetto dello scultore Ettore Ximenes, ai tempi uno dei più grandi artisti italiani. Ximenes fa il bozzetto, viene anche stampata una cartolina celebrativa, ma il monumento non verrà mai costruito, e i soldi, equivalenti a mezzo milione di euro di oggi, si perderanno…”. Nel centenario dello sbarco, 1960, si indice un concorso internazionale di idee con un progetto grandioso firmato dall’architetto Emanuele Mongiovì: “Due poppe di nave, in travertino e a grandezza quasi naturale, che si fondono in una sola prua a ricordare i due bastimenti dell’impresa, il Piemonte e il Lombardo, convergenti nell’unicità del Risorgimento”. Misure: 70 metri di lunghezza per 26 di larghezza. Più “un albero maestro che si innalza per 47 metri”. Più le vele: “Un panneggio marmoreo di 550 metri quadri. A prua, svettante per 5 metri, Giuseppe Garibaldi”. Per l’avvio dell’iter ci vogliono altri due decenni. I nuovi lavori per la costruzione della mastodontica opera, al centro del lungomare, furono inaugurati dall’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, nel luglio 1986. Fradicio di sudore in un mare di garofani rossi pose la prima pietra. “Speriamo che non resti un’incompiuta”, si lasciò sfuggire. Ci indovinò. Perché due anni dopo un funzionario del demanio fermò i lavori: il monumento era totalmente abusivo. Poche settimane e un dispaccio Ansa illustrava il dettaglio della controversia: “La capitaneria di porto di Trapani ha ingiunto al Comune di Marsala di demolire, entro trenta giorni, il basamento costruito su terreno del demanio marittimo sul quale doveva sorgere il monumento-museo in ricordo dello sbarco dei mille di Garibaldi avvenuto nel 1860. Nell’ingiunzione la capitaneria scrive, tra l’altro, che se il Comune non ottempererà all’invito sarà la stessa capitaneria a procedere d’ufficio”. Sono passati, da allora, 21 anni e mezzo. E mentre spuntavano ogni tanto nuovi appelli a sbloccare i lavori e nuove proposte per rendere il ciclopico manufatto più leggero (e se si rinunciasse alle vele? E se si facessero le vele di metallo invece che di granito? E se queste vele suonassero al vento?) lo scheletro del Monumento ai Mille è un segno compiuto del degrado e dello spreco.
Il conto economico di questa vergogna non si conosce esattamente, ma sono alcuni miliardi di lire buttati in faccia alla storia e al decoro delle istituzioni. I miliardi, tutti quei miliardi, sono serviti a costruire un obbrobrio, una specie di casamatta. E neanche il fastoso compleanno, i 150 anni dell’Unità d’Italia, segnati da favolosi impegni pubblici, continue rincorse ufficiali al dovere della memoria e al patriottismo, sono serviti a rendere degno, finalmente accettabile, quel ceppo così decisivo. Ecco il paradosso: il treno è un costo insopportabile, lo spreco un’eventualità infinita e reiterabile. Il treno fa le spese dei furti di massa. Il binario, che c’era prima ancora che l’Italia si ritrovasse unita, diviene una carcassa, un fondo inutile, un esercizio d’amore di retrovia. Avanzano i viadotti, si allargano le strade, si concentrano i bus. Tutti insieme, incolonnati e felici, con le montagne divaricate, i costoni tagliati. Sull’asfalto le migliori tangenti possibili, con l’asfalto i sogni più incredibili e le opere più vomitevoli. Un viadotto a metà, chiuso al nulla, sorvola la stazione ferroviaria di Porto Empedocle. Naturalmente chiusa. Quel viadotto mai completato, è l’esempio scintillante, poderoso, inequivoco di quanto siano grandi la malafede e la falsità della rappresentazione ufficiale. Di come la verità si trasformi in bugia, l’opera pubblica in spreco sistemico, nesso funzionale tra la politica e la società. Come i cittadini siano ridotti a clientes e solo la merce, il denaro dell’appalto, è il collante ideologico. Resta, sotto quel viadotto interrotto e sospeso in aria, una verità semplice, minuta ma esplosiva nella sua identità. Si è tolta a intere comunità una via di collegamento sicura e veloce, un mezzo potente ed economico come il treno, pur essendoci, vedendo quanti soldi e come sono stati buttati al vento, i mezzi economici per conservarlo. La falsità del costo insostenibile riempie gli occhi e li fa bruciare per l’indignazione. Porto Empedocle era la stazione d’arrivo di un percorso che partiva da Castelvetrano, in provincia di Trapani. Tra i due poli, la lunga teoria degli scempi edilizi e un luogo, una città, Sciacca, madre di tutte le più ardite interpretazioni circa l’uso che si può fare del denaro pubblico, frutto, è bene ricordarlo, delle famose imposte (di chi le paga). Sciacca è il punto di non ritorno di come siano state devastate le casse pubbliche. Questa città è stato il teatro negli anni settanta della più ciclopica rincorsa alla fantasia sprecona. In quegli anni si immaginò di far divenire Sciacca un mix tra una spiaggia tropicale e un fiordo norvegese. Si pensò possibile di sviluppare, attraverso una gragnuola di appalti pubblici, l’idea di tenere insieme fondali caraibici e orche scandinave, la neve al sole, il mare alla montagna.
La funivia e la neve al mare
Una corda d’acciaio (una corda sì!) avrebbe reso possibile la spettacolare coniugazione. Una funivia sarebbe partita dal mare e avrebbe condotto i turisti in montagna, superate le case. Palle di neve artificiale avrebbero reso stupenda, imperdibile la risalita. “Dite ai vostri figli di ritornare a Sciacca – raccomandò Calogero Mannino, il rappresentante eterno in loco del partito egemone, la Democrazia cristiana – C’è lavoro per tutti finalmente”. Seicento miliardi di lire è costato il sogno caraibico, solo (sic!) quattrocento milioni le orche. Degli undici alberghi, dei settemila posti letto, della neve e di tutto il resto, nulla è dato sapere. Fuggiti via i sogni e il lavoro, buttati alle ortiche i soldi, fallita la società pubblica che avrebbe dovuto trasformare Sciacca in un giardino, una sede termale internazionale, un meraviglioso luogo dove andare e scordarsi di ripartire. Appalti evaporati, come l’acqua che bolle nell’inutile attesa degli spaghetti. Sciacca è più povera di prima, se possibile. Non ha il treno, e sembra il minimo. Anche gli ospedali, attraverso la famosa razionalizzazione, si fanno più distanti, le strade più bucate, i municipi più vuoti e inospitali, le scuole blindate in manufatti derelitti, la ruggine come segno distintivo del tricolore.
Chiude la ferrovia e con il treno che si ferma, come questo a Porto Empedocle che testimonia il fallimento civile dell’organizzazione pubblica, si chiude ogni idea di rinascita. L’unica cosa che resta da fare, con questo caldo, è un tuffo a mare. E anche qui, malgrado la spiaggia meravigliosa che si stende ai piedi di Agrigento, l’ingombro della centrale termoelettrica dell’Enel. “L’acqua potrebbe essere inquinata, e il bagno non è veramente consigliabile. Però nessuno ci fa caso oramai. La centrale è brutta e ci toglie la visuale e mette anche un po’ paura. Ma cosa ci vuoi fare?”. È la domanda di Claudio, ingaggiato dal lido per rendere serene e divertenti le giornate sotto l’ombrellone: “Curo la musica, si balla, si canta…”.

da: Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2013

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1 Comment

  1. Tutto lo sfascio che c’è nel Sud Italia sono il vero monumento a Caribbaldo, mano armata di quello stato del malaffare che ha compiuto la sua emigrazione al contrario: da Torino alle Due Sicilie.

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