“Io sono una persona perbene”, ha detto. E finalmente una lacrima sul viso. La lacrima di Nichi Vendola, che non si è vista ma si è sen-tita, è parsa vera come la sua paura di finire travolto dal disonore, di venire inghiottito dagli sberleffi, di chiudere la sua già densa carriera politica, a metà tra la poesia e il potere, il sentimento e la cura dei voti, nella brace di una condanna penale.
Ieri si è tolto un peso, e si è visto come ha ripreso a macinare la poetica dell’ultimo, dell’uomo qualunque nel senso di uomo comune, senza difese che il suo corpo, la sua verità, il proprio onore. Il suo linguaggio è insieme prova di connessione sentimentale con gli elettori e prova d’altura, dimostrazione di alterità nel mondo parolaio della politica, lieve come una bolla d’aria, ma anche vuota come una bolla d’aria. Ha iniziato subito con la poesia: “L’innocenza era scritta nel cuore”. Bisogna dire che insieme all’assoluzione Nichi ha restituito onore all’onore, “mio padre me lo diceva sempre che era necessario dare un senso a quelle cose lì”, e dato un valore anche al disonore. Lo svuotamento semantico di queste due parole, messe in soffitta dalla classe politica del Paese, prova la responsabilità più grande di chi ha governato finora. Aver cioè finto che non esistesse un dovere ulteriore, un senso ulteriore e anche un onere ulteriore che la vita pubblica assegna ai suoi protagonisti: non soltanto di gestire in modo trasparente e onesto il bene comune, i beni di tutti noi, ma anche di elevare la propria condizione e di misurarla attraverso una scala più rigida. Non già e non solo perchè la pretesa all’onore dell’uomo pubblico è un diritto costituzionale da esercitare, una richiesta da avanzare, ma perchè l’onorabilità di una persona è la cifra costitutiva, la premessa per fare il resto. Certo, noi italiani siamo stati abituati agli “uomini d’onore” e questa sovrapposizione di figure e immagini ha ulteriormente prodotto la riclassificazione verso il basso della parola.
Vendola si vede ora restituito ai pieni poteri, alla gioia dell’assoluzione. “Adesso inizia la cavalcata” promette. “I sondaggi mi hanno dato sempre sconfitto poi il voto vero mi ha visto vincitore”, garantisce. Vero, finora Vendola ha assolto la funzione di comprimario nella gara alla leadership del centro sinistra: è il terzo incomodo tra Renzi e Bersani. Con la convinzione, per lui drammatica, che l’apparenza questa volta potesse coincidere con la realtà: terzo appariva e terzo sarebbe arrivato nella gara delle primarie. Ostruiva “la cavalcata” questo verdetto giudiziario: “Se sono condannato lascerò la vita politica”, aveva perciò annunciato alla vigilia della sentenza. Quell’annuncio è stato un assoluto inedito, cose mai viste nella politica italiana. Gli ha fatto onore (di nuovo l’onore) aver messo a rischio la carriera e non aver voluto alcuna rete di protezione. Si può anche pensare, e noi lo pensiamo, che un annuncio di questo tipo abbia affidato al giudice un potere soverchiante e non richiesto, un onere ulteriore e imprevisto, un peso che non meritava di sostenere. Il giudice era stato chiamato a stabilire se il presidente della Regione avesse abusato del suo ufficio e in quale forma. Non poteva né doveva aprire o chiudere la carriera politica di alcuno. Addossare una così elevata responsabilità ha finito per destinare ancora una volta sulle spalle della magistratura i costi pubblici dell’immagine della politica. Poteva Vendola attendere in silenzio la sentenza, non gravarla con la sua preven-tiva avvertenza e forse sarebbe stato meglio. Non l’ha fatto. Però non ha compiuto neanche il gesto opposto: rifugiarsi nella sentenza definitiva, che in Italia ha tempi notoriamente biblici, per evitare di rendere conto dei suoi atti. Aver rifiutato di fare come tutti gli altri è un’altra prova di forza, raccoglie insieme rischio e coraggio. Vendola è uno dei pochi, se non l’unico, dei leader nazionali che viene indicato col suo nome di battesimo. Tutti lo chiamano Nichi. E Nichi non sta per Nicola ma per Nikita (come Nikita Kruscev), a testimoniare la fede familiare per il comunismo, la radice rossa da cui proviene. Nichi invece rischiava di essere ricordato come il primo politico italiano a finire decapitato dalla magistratura, “e non volevo essere accomunato ai tanti Fiorito”, ha spiegato illustrando la sua angoscia. Finire come un Fiorito qualsiasi, questo era il dramma.
La Regione Puglia, di cui è presidente, non è un luogo pieno di luce. In Puglia si fanno affari e gli affari, alcuni leciti e altri forse no, sembrano avere sempre nella burocrazia regionale agganci e sponde, punti di ritrovo, aree di compensazione. Vendola sa che l’attività amministrativa della sua giunta, e degli uffici che danno o revocano autorizzazioni, convenzioni, pareri e finanziamenti, non sono affatto immuni da sospetti, da dubbi, da ombre. E la vicenda dell’Ilva di Taranto consegna in capo anche alla sua responsabilità una tragedia sociale che doveva forse essere evitata. Ma qui siamo già a domani, oggi si fa festa. da: Il Fatto Quotidiano, 1° novembre 2012
L’eloquio di Vendola ha una sua originale poetica, ammaliante per certi versi, e tu hai la naturale capacità di addomesticare le parole rendendo la lettura un piacere che continua a rinnovarsi.