“Io sono una persona perbene”, ha detto. E finalmente una lacrima sul viso. La lacrima di Nichi Vendola, che non si è vista ma si è sen-tita, è parsa vera come la sua paura di finire travolto dal disonore, di venire inghiottito dagli sberleffi, di chiudere la sua già densa carriera politica, a metà tra la poesia e il potere, il sentimento e la cura dei voti, nella brace di una condanna penale.
Ieri si è tolto un peso, e si è visto come ha ripreso a macinare la poetica dell’ultimo, dell’uomo qualunque nel senso di uomo comune, senza difese che il suo corpo, la sua verità, il proprio onore. Il suo linguaggio è insieme prova di connessione sentimentale con gli elettori e prova d’altura, dimostrazione di alterità nel mondo parolaio della politica, lieve come una bolla d’aria, ma anche vuota come una bolla d’aria. Ha iniziato subito con la poesia: “L’innocenza era scritta nel cuore”. Bisogna dire che insieme all’assoluzione Nichi ha restituito onore all’onore, “mio padre me lo diceva sempre che era necessario dare un senso a quelle cose lì”, e dato un valore anche al disonore. Lo svuotamento semantico di queste due parole, messe in soffitta dalla classe politica del Paese, prova la responsabilità più grande di chi ha governato finora. Aver cioè finto che non esistesse un dovere ulteriore, un senso ulteriore e anche un onere ulteriore che la vita pubblica assegna ai suoi protagonisti: non soltanto di gestire in modo trasparente e onesto il bene comune, i beni di tutti noi, ma anche di elevare la propria condizione e di misurarla attraverso una scala più rigida. Non già e non solo perchè la pretesa all’onore dell’uomo pubblico è un diritto costituzionale da esercitare, una richiesta da avanzare, ma perchè l’onorabilità di una persona è la cifra costitutiva, la premessa per fare il resto. Certo, noi italiani siamo stati abituati agli “uomini d’onore” e questa sovrapposizione di figure e immagini ha ulteriormente prodotto la riclassificazione verso il basso della parola. Continue reading