E’ maggio il mese del giro d’Italia. Nelle prime giornate di corsa il gruppo si tiene unito sulle bici, strade dritte e umore giusto. A Mario Monti la fatica è comparsa all’improvviso, come quei passisti che di colpo si trovano impegnati in una tappa dolomitica e ogni pedalata diventa una fatica, a ogni sforzo corrisponde un colpo di tosse. Aveva preventivato per l’estate uno spread a 250 e se lo ritrova a 400 (fanno 15 miliardi di ulteriore buco di bilancio), aveva immaginato Berlusconi nascondersi dietro il bancone del governo e se lo ritrova fuori di casa, compagno squinternato e vagabondo. Casini, il suo moltiplicatore centrista, è di colpo appiedato, sepolto dalle macerie elettorali, e Bersani inizia a protestare e a farsi due conti. Conviene Monti?
Tutto gira storto e persino le parole cominciano a produrre guai. I suicidi degli imprenditori? “Colpa di quegli altri”. Cioè di Berlusconi. Conferma? Smentisce? Smentisce.
Era bello quando Monti parlava e tutti ascoltavano silenziosi. Oggi è diverso, le sue parole sono coperte da un sottofondo disordinato di richieste e di rimproveri. Era il professore, sta divenendo uno scolaro. Uno di noi, dicono a Montecitorio.
Tutto si fa più pesante (“longer, much longer”), la linea dell’orizzonte si perde alla vista, la crescita sprofonda in un tic televisivo.
Giunto al sesto mese di governo, sotto questo cielo e davanti a questo mare di problemi, le idee si sono trasformate in propositi, le certezze in possibilità, gli amici in nemici. E i tecnici stanno per essere restituiti alla condizione inselvatichita di politici incompetenti. Dei politici qualunque, come tutti noi.
Era di maggio, rosa appassita.
da Repubblica Sera