Il lato B. Quando l’antipolitica fa bene

Per antipolitica si intende un moto greve, distruttivo (da qui l’anti) incapace di cogliere l’idea che l’azione politica possa essere destinata al bene comune. L’antipolitica come spirito qualunquistico, raggrumato nella parola d’ordine plebea “è tutto un magna magna”.

Vero. E’ vero che il disconoscimento di ogni forma di partecipazione democratica, il disinteresse a qualunque attività, produca poi giudizi sommari e scontati, accuse indimostrate, considerazioni del tutto approssimate e vuote.
Ma c’è, come possiamo chiamarlo?, un lato B dell’antipolitica: la civile indignazione. L’operosa indignazione. La giusta indignazione.
Non mi sognerei mai perchè penso che sia del tutto fuori luogo, chiamare Berlusconi “psiconano” e Veltroni “topogigio”. Sono gli sfregi inutili di Beppe Grillo, l’effetto collaterale del “grillismo”.
E però dobbiamo dirla tutta, e per bene. Il moto di indignazione che ha suscitato, e anche la forma organizzata di tutta questa indignazione popolare, ha contribuito a produrre effetti in qualche modo benefici in un tempo più ravvicinato di quanto si potesse ritenere.
7 settembre 2007-7 febbraio 2008. In cinque mesi è per esempio imploso il partito-famiglia di Clemente Mastella, a cui l’Unione aveva tributato la più degna delle accoglienze offrendo al capostipite Clemente la poltrona di ministro della Giustizia, Guardasigilli della Repubblica. Il 7 settembre, mi pare, la data in cui a Telese, luogo della festa politica a cui nessuno poteva mancare (e infatti nessuno, da Fini a Bertinotti, è mai mancato), Roberto Benigni, il grande Benigni, suggellò con la sua presenza (a pagamento, s’intende!) lo status di leader nazionale di Mastella.
Cinque mesi dopo Mastella è divenuto un senzacasa, un appestato, isolato. Berlusconi l’ha dovuto buttare a mare.
Mastella paga più dei suoi demeriti, è vero. Ma la sua sorte, su questo non vi è alcun dubbio, ha allarmato e reso più prudenti altri uomini politici che in nome del potere e della propria visibilità hanno calpestato ogni forma di coerenza e di dignità. Prima degli altri Antonio Di Pietro, sempre pronto, fino a qualche settimana fa, a distinguersi, accusare, vivere in una dorata irresponsabilità il suo ruolo. Veltroni gli ha chiesto, e c’è una ragione, di verificare nome per nome il cursus honorum dei suoi candidati. Di Pietro ha detto sì. Ed è un risultato. E Alfonso Pecoraro Scanio sembrerebbe aver deciso di chiedere a suo fratello senatore di scendere da cavallo: troppo imbarazzante la parentela.
Se c’è un moto, ancora timido, che rafforza il principio che le liste elettorali debbano essere pulite, cioè ripulite dai troppi nomi sporcati da vicende giudiziarie ed episodi criminali di una qualche gravità, lo si deve appunto al lato b dell’antipolitica: la giusta e civile indignazione. L’indignazione manifestata, comunque esplosa nelle settimane e nei mesi scorsi.
Nonostante tutto possiamo dire che qualche risultato l’abbia già ottenuto. Non è un risultato da poco.

I Must

CARLO TECCE

Larghi manifesti verdi. Pugni chiusi verso il cielo. Scudo crociato. Rialzati, Italia! Il Paese dei balocchi si ricopre di belle parole, delle solite promesse, prova a respirare democrazia, rincorre il mito americano. Per un mese e mezzo, soltanto un mese e mezzo, la gente si sente decisiva: una testa, un voto.
In Russia fanno finta di rinnovare un rito democratico, le elezioni politiche. In America aspettano il cambiamento. Israele e Hamas si ammazzano. Cuba lava i panni vecchi e si riveste. In Venezuela ti sparano un nemico su commissione, bastano un migliaio di dollari. In Brasile costruiscono grattacieli sulle favelas. In Africa ci sono tre emergenze: fame, genocidio, discriminazione. E noi possiamo. «I can, we can», urla Veltroni, sorridente e silente (contro Silvio) verso le telecamere. Noi possiamo poco. L’Italia è bistrattata in Europa, figurarsi nel Mondo. Certo, la moratoria sulla pena di morte. Fosse una ferrea legge, sarebbe un vanto da protrarre per secoli. No. In Cina, negli stati indipendenti e negli stati canaglia: no, lì si muore in nome della giustizia (?). E noi possiamo. Lo Stato tassa, accumula, spende male. I politici sperperano, alimentano il nepotismo, giurano e spergiurano. I dirigenti intascano sempre, non rispondono mai. Alcuni concorsi sono pantomime. E noi possiamo. Guardare, almeno. Interessarci, per dovere morale. Preoccuparci, se abbiamo la presunzione di avere un cuore. Possiamo reagire, magari. Cominciando dal nostro palazzo, passando nel nostro quartiere, inoltrandoci verso la strada opposta, sbirciando la città vicina, immaginando un’altra nazione. L’Italia che cammina storta, ricurva e adusa a qualsiasi fregatura. L’Italia è raccontata, per fortuna si può raccontare: è scritto nella Casta di Rizzo e Stella, è scritto in Gomorra di Saviano, è scritto in Impuniti di Caporale. E noi, la gente, cosa siamo? Vittime, spesso. Conniventi, a volte. Il tema è serio. Proviamo con una citazione colta. Platone: «Il più grande dei mali è commettere ingiustizia». Eppure sembra il più grande dei vizi italiani. Per correggere la Russia si può partire anche da Corleone, il paese della mafia. L’Italia può essere raddrizzata. Non perché possiamo, semplicemente perché dobbiamo. Altro che «I can», meglio «I must». Dovere civico, regola numero uno. Un dovere verso se stessi, un dovere verso gli altri. La libertà si conquista con il dovere. Fine del monologo incessante alla Joyce. Perché il blog? Per provare a praticare il motto «I must», parlando, discutendo, denunciando il marcio. Fare quattro chiacchiere tra amici. Provare a fare qualcosa, soprattutto.